Vuoti di memoria I libri, le cattedre universitarie, le riviste, i dibattiti fra storici, tutto ciò che un tempo costituiva la fonte di informazione storica, appare sovrastata da nuove forme di comunicazione. Se fino a qualche tempo fa erano gli storici ad informare le opinioni comuni sul nostro passato, oggi sono gli strumenti dell’uso pubblico e politico della storia ad improntare giudizi e opinioni correnti. Oggi la comunità degli storici appare profondamente in crisi, colpa forse di una eccessiva autoreferenzialità. In realtà è come se gli storici si ponessero domande rivolte solo a sé stessi. Se negli anni Settanta, e anche oltre, storici come De Felice, Ragionieri o Romeo erano, oltre che autori di libri di storia, “facitori” di senso comune storici, oggi non è più così. Come a dire che sembra essere entrato definitivamente in crisi una parte importante del ruolo sociale degli storici. Soggetti politici, operatori dei media, opinionisti della carta stampata hanno prodotto una ipertrofia della informazione storica destinata alla formazione di un nuovo senso comune che poggia sui generalizzati «vuoti di memoria» delle giovani generazioni. L’ipotesi non è poi così peregrina se si presta fede a ciò che ormai una quindicina di anni fa scriveva uno dei massimi storici del Novecento, Eric Hobsbawm, sostenendo che la maggior parte dei giovani è cresciuta in una sorta di presente permanente, nel quale manca ogni rapporto organico con il passato storico del tempo in cui essi vivono. A dieci anni dalle osservazioni di Hobsbawm nulla fa ritenere che la situazione abbia subito un miglioramento. Anzi, i debiti con la memoria (e con la storia) delle giovani generazioni si sono probabilmente accresciuti. A fronte di questi problemi è legittimo interrogarsi su come stia cambiando il mestiere di storico per chiedersi, in definitiva, non tanto a che serve la storia, ma, piuttosto a chi serve

VUOTI DI MEMORIA. USI E ABUSI DELLA STORIA NELLA VITA PUBBLICA ITALIANA

PIVATO, STEFANO
2007

Abstract

Vuoti di memoria I libri, le cattedre universitarie, le riviste, i dibattiti fra storici, tutto ciò che un tempo costituiva la fonte di informazione storica, appare sovrastata da nuove forme di comunicazione. Se fino a qualche tempo fa erano gli storici ad informare le opinioni comuni sul nostro passato, oggi sono gli strumenti dell’uso pubblico e politico della storia ad improntare giudizi e opinioni correnti. Oggi la comunità degli storici appare profondamente in crisi, colpa forse di una eccessiva autoreferenzialità. In realtà è come se gli storici si ponessero domande rivolte solo a sé stessi. Se negli anni Settanta, e anche oltre, storici come De Felice, Ragionieri o Romeo erano, oltre che autori di libri di storia, “facitori” di senso comune storici, oggi non è più così. Come a dire che sembra essere entrato definitivamente in crisi una parte importante del ruolo sociale degli storici. Soggetti politici, operatori dei media, opinionisti della carta stampata hanno prodotto una ipertrofia della informazione storica destinata alla formazione di un nuovo senso comune che poggia sui generalizzati «vuoti di memoria» delle giovani generazioni. L’ipotesi non è poi così peregrina se si presta fede a ciò che ormai una quindicina di anni fa scriveva uno dei massimi storici del Novecento, Eric Hobsbawm, sostenendo che la maggior parte dei giovani è cresciuta in una sorta di presente permanente, nel quale manca ogni rapporto organico con il passato storico del tempo in cui essi vivono. A dieci anni dalle osservazioni di Hobsbawm nulla fa ritenere che la situazione abbia subito un miglioramento. Anzi, i debiti con la memoria (e con la storia) delle giovani generazioni si sono probabilmente accresciuti. A fronte di questi problemi è legittimo interrogarsi su come stia cambiando il mestiere di storico per chiedersi, in definitiva, non tanto a che serve la storia, ma, piuttosto a chi serve
2007
9788858100677
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11576/2508794
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