Il contributo analizza in prospettiva critica il ruolo significativo svolto dalla giurisprudenza della Corte costituzionale nella costruzione del principio riparatore a favore della vittima dell’ingiusta detenzione consacrato nell’art. 24, comma 4, Cost. Dapprima, sollecitando timidamente il legislatore a completare la tutela della libertà personale prevedendo la riparazione per i casi di ingiusta custodia, esclusa dall’art. 571 c.p.p. 1930 (v. Corte cost., n. 1 del 1969), poi, a partire dal 1996, intervenendo energicamente ad emendare da irragionevoli discrasie e vuoti di tutela la disciplina contenuta negli artt. 314 e 315 c.p.p. con una serie di importanti decisioni additive ( v. Corte cost. n. 310 del 1996, n. 446 del 1997, n. 109 del 1999). Di quelle pronunce il contributo esamina i percorsi argomentativi e le concrete ricadute sull’estensione dei confini dell’istituto della riparazione, mettendo in luce altresì la difficoltà del legislatore del 1999 nel recepire tale spinta propulsiva. L’incapacità di andare oltre un modesto ritocco all’art. 409, comma 1, c.p.p. ha investito nuovamente la Corte costituzionale del compito di estendere il perimetro di operatività dell’indennizzo a ipotesi di custodia ingiusta non contemplate (v. Corte cost. n. 284 del 2003; n. 230 del 2004; n. 413 del 2004). Compito che i giudici della Consulta hanno in più occasioni assolto mediante lo strumento della sentenza interpretativa di rigetto, a costo di rinunciare a itinerari argomentativi rigorosi e di ricorrere a manipolazioni vistose del dato testuale. La scelta di non dichiarare l’illegittimità delle disposizioni impugnate, ma di sottoporle a letture in grado di ricondurle forzatamente nell’alveo costituzionale, comporta precise conseguenze, che il contributo provvede a mettere in rilievo: non solo tale opzione contrasta con l’esigenza che la disciplina riparatoria sia improntata a principi di legalità e trasparenza, ma per un verso ha scarsa efficacia modificativa rispetto a orientamenti giurisprudenziali difformi, per l’altro fornisce al legislatore un alibi per ritardare un riassetto complessivo dell’istituto; un riassetto che l’Autrice ritiene ineludibile, nella prospettiva garantista secondo cui l’ingiusta detenzione subita debba comunque trovare adeguata riparazione.

Presupposti e garanzie in tema di riparazione per l'ingiusta detenzione

COPPETTA, MARIA GRAZIA
2006

Abstract

Il contributo analizza in prospettiva critica il ruolo significativo svolto dalla giurisprudenza della Corte costituzionale nella costruzione del principio riparatore a favore della vittima dell’ingiusta detenzione consacrato nell’art. 24, comma 4, Cost. Dapprima, sollecitando timidamente il legislatore a completare la tutela della libertà personale prevedendo la riparazione per i casi di ingiusta custodia, esclusa dall’art. 571 c.p.p. 1930 (v. Corte cost., n. 1 del 1969), poi, a partire dal 1996, intervenendo energicamente ad emendare da irragionevoli discrasie e vuoti di tutela la disciplina contenuta negli artt. 314 e 315 c.p.p. con una serie di importanti decisioni additive ( v. Corte cost. n. 310 del 1996, n. 446 del 1997, n. 109 del 1999). Di quelle pronunce il contributo esamina i percorsi argomentativi e le concrete ricadute sull’estensione dei confini dell’istituto della riparazione, mettendo in luce altresì la difficoltà del legislatore del 1999 nel recepire tale spinta propulsiva. L’incapacità di andare oltre un modesto ritocco all’art. 409, comma 1, c.p.p. ha investito nuovamente la Corte costituzionale del compito di estendere il perimetro di operatività dell’indennizzo a ipotesi di custodia ingiusta non contemplate (v. Corte cost. n. 284 del 2003; n. 230 del 2004; n. 413 del 2004). Compito che i giudici della Consulta hanno in più occasioni assolto mediante lo strumento della sentenza interpretativa di rigetto, a costo di rinunciare a itinerari argomentativi rigorosi e di ricorrere a manipolazioni vistose del dato testuale. La scelta di non dichiarare l’illegittimità delle disposizioni impugnate, ma di sottoporle a letture in grado di ricondurle forzatamente nell’alveo costituzionale, comporta precise conseguenze, che il contributo provvede a mettere in rilievo: non solo tale opzione contrasta con l’esigenza che la disciplina riparatoria sia improntata a principi di legalità e trasparenza, ma per un verso ha scarsa efficacia modificativa rispetto a orientamenti giurisprudenziali difformi, per l’altro fornisce al legislatore un alibi per ritardare un riassetto complessivo dell’istituto; un riassetto che l’Autrice ritiene ineludibile, nella prospettiva garantista secondo cui l’ingiusta detenzione subita debba comunque trovare adeguata riparazione.
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11576/2299744
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