Questo studio accenna alle possibilità di dialogo tra le monadi delle norme penali e quelle dei fattori economici. A tale scopo, cerca una mediazione concettuale nelle venture dell’analisi economica del reato. Analisi che, su un modello di razionalità economica volta a portare al massimo l’utile comune, ritiene ogni attività umana predisposta a sostituire una azione peggiore con una migliore. Un modello di razionalità che, l’analisi economica, adotta anche per la definizione di reato e la prevenzione delle condotte devianti che lo compongono. Un modello finora contestato dal diritto penale in quanto, pur considerando con larghezza l’idea di «miglioramento di una situazione» proposto dalla stessa analisi economica, vincola le scelte comportamentali a un monotematico schema costi-benefici: uno schema che nella sua rigidità rappresentata dal pensiero fondante della scuola di Chicago, non rispecchierebbe veramente un prototipo di qualche umanità. In altre parole, questo tipo di analisi comportamentale fondata su fattori economici sembrerebbe ignorare, anziché solo selezionare, le infinite pulsioni dell’uomo; pulsioni che le scienze penalistiche ritengono comunque presenti, anche quando si tratta di condotte che coinvolgono beni di natura patrimoniale in bilico tra esigenze individuali e necessità sociali. La prospettiva dischiusa dalla L&E è affascinante. Da un lato, ammalia considerare il diritto come un mero sistema di allocazione delle responsabilità tra i soggetti coinvolti in un’attività. Dall’altro, tranquillizza semplificare l’analisi delle devianze con soluzioni volte sia a massimizzare il risultato comune, sia a minimizzare i costi complessivi delle attività in conflitto. In sostanza, la L&E offre una teoria comportamentale che si dice in grado di contrapporre un’affidabile valutazione secondo costi-benefici a scelte normative fondate sul solo «buon senso». Coerentemente, la L&E non esita a scommettere sulla propria capacità di adattare le teorie economiche alle esigenze giuridiche, quantificando le necessità del diritto in virtù di un’analisi che si fa largo nel sociale a colpi di matematica. Qui ci si affanna in particolar modo sulla fase di produzione e interpretazione delle norme penali, con uno spazio comune infine lasciato all’ermeneutica nella gestione del diritto. Se fosse rivolta alla sola fase applicativa del diritto penale, i tratti generali di questa analisi obbligherebbero ad un discorso strutturalmente diverso. Un discorso che esaminasse, ad esempio, gli spazi giudiziali per considerazioni economiche nella valutazione d’interessi in conflitto legati a cause di giustificazione, a scusanti, alla commisurazione della pena, meriterebbe approfondimenti niente affatto scontati sull’inglobamento di stime politico-criminali nella definizione giudiziale del diritto. In breve: sono altre le forze che occorrerebbe raccogliere per affrontare le considerazioni giudiziali ammesse in un contesto di tassativa applicazione delle disposizioni che incidono con la pena sulla persona. La L&E lavora in effetti su una certa immagine del mondo. Vi vede scarsità di risorse e diversità di preferenze sulla loro distribuzione. Per Lei, il mondo è un luogo di conflitti potenziali. La L&E ha per di più una certa idea dell’uomo che abita questo mondo. Vi vede un essere capace di decidere in libertà e secondo ragione, cercando la massima utilità con decisioni non contraddittorie tra loro. Per Lei, l’uomo è un produttore di scelte razionali autonome e transitive. La L&E cerca infine un certo strumento per operare sulle preferenze dell’uomo che abita questo mondo. Lo vuole efficiente nell’allocazione delle risorse quand’è ispirato ad un modello tendenziale di concorrenzialità perfetta. Per Lei, la scelta dello strumento cade inevitabilmente sul mercato. E quando il mercato bene non serve al diritto, perché gli uomini sembrano essere meno reattivi alle sanzioni giuridiche rispetto ai prezzi delle merci, la L&E decide di operare con una branca della microeconomia che s’interessa precipuamente dei comportamenti strategici: la teoria dei giochi. Com’è normale in un discorso interdisciplinare, occorre però trovare un piano comune alla scienza del diritto come a quella dell’economia. Un piano necessario per discernere il mito dalla realtà riferita alla razionalità dell’homo oeconomicus e, così, tentare di capire il suo essere homo con interrelazioni soggettive e ambientali anche di natura economico-razionale. In breve: occorre trovare un piano che permetta al diritto di svolgere la sua funzione regolatrice, ragionando su criminologia e politica criminale dedicata alle condotte di persone la cui razionalità è solo un elemento di più complicate relazioni che si svolgono sul piano dei fatti come su quello delle norme e della loro conoscenza. Esaltata la funzione di deterrenza legata alla minaccia di sanzione, nel mercato delle pene una condotta è socialmente desiderabile solo quando il beneficio del privato è superiore al costo sociale. In base al rapporto costi-benefici, risulta economicamente utile vietare solo quelle attività con alti danni sociali, bassi benefici privati e ridotti costi di controllo. Applicando la formula di BECKER, una politica repressiva ottimale dovrebbe pertanto prevedere una sanzione altissima, comminata con una probabilità bassissima di condanna. Questa combinazione offrirebbe il modo più economico per esercitare la deterrenza, riducendo gli investimenti sulle attività di controllo grazie all’aumento della sanzione. Questa posizione lascia però perplessi, anche limitando il campo di applicazione alla sola pena pecuniaria. In generale, la formula di BECKER lascia all’ultima indefinita variabile (u) gran parte del peso criminologico e dogmatico di gestione della devianza criminale, limitandosi a rivitalizzare assunti che molto devono alle valutazioni “psicologiche” di BECCARIA e al diverso contesto in cui si sono sviluppati oppure, com’è il caso della seconda variabile (f), non trovano risposte univoche negli studi empirici. La stessa criminologia è scettica sulla possibilità che la severità della pena e la probabilità della condanna possano incidere sul tasso di criminalità legato, per esempio, a fenomeni sub-culturali o a patologie psichiatriche; stesso discorso di fronte a divieti non condivisi dalla società come la proibizione di vendita degli alcolici negli Stati Uniti (1919-1933) o, per contro, rispetto alla dubbia efficacia della pena di morte in paesi che pur la condividono e praticano con triste frequenza e pubblicità. Non si può nemmeno condividere il paradigma di POSNER quando sostiene che «la funzione del diritto penale è quella d’imporre costi addizionali alla condotta illegale quando i rimedi convenzionali al danno sarebbero insufficienti a limitare questa condotta a un livello efficiente». Nella prospettiva penalistica, questa definizione sembra confondere lo strumento con lo scopo. Non è compito del diritto penale stabilire costi, ma comminare pene finalizzandole alla tutela come ultima ratio di beni giuridici individuati con lo sguardo rivolto alla Costituzione. Volgendo il discorso ai «rimedi normativi», la definizione di POSNER tutt’al più si avvicina ad una vetero concezione sanzionatoria del diritto penale. Una concezione lontana dalla realtà operativa e ideale di questo diritto che, pur quando appare intento a comminare pene per la violazione di precetti definiti fuori dal diritto penale, tuttavia chiede che la norma nel suo complesso sia sempre compatibile con i principi che ne legittimano l’esistenza. Detto in successione cronologica: esaltare la mera funzione sanzionatoria del diritto penale, prima, fa strage della funzione almeno ideale di orientamento generale e di recupero individuale del reo, poi, infierisce sulle ragioni che impongono di cercare in ogni norma sanzionata con pena i principi di materialità nel divenire, di offensività nel ferire, di colpevolezza nel rispondere. È bene prendere atto che il sistema penale e strutturalmente diseconomico: tutela diritti mediante la lesione di altri diritti. Nell’immediato, la pena comporta alla collettività dei costi che producono ulteriori danni senza riparare il danno originale. Il mercato della pena è inoltre inquinato ed atipico. Inquinato da considerazioni non riconducibili sempre a razionalità, e atipico perché ha come scopo quello di scoraggiare tanto la domanda di pena da parte del reo quanto l’offerta di pena da parte dello Stato a favore di un bene finale non quantificabile qual è la sicurezza sociale. Anche come strumento di mera allocazione del rischio, la responsabilità penale va perciò oltre un discorso di costi, servendo la tutela di beni giuridici considerati secondo una scala di valori che ottengono ulteriori valutazioni politico-criminali all’interno del sistema con le categorie dell’antigiuridicità, della colpevolezza e della punibilità. Se è poi verosimile che la responsabilità penale possa settorialmente rispondere ad un ordine di incentivi e disincentivi accomunabile a quello suggerito dalla L&E, ciò non esclude che gli incentivi e disincentivi rappresentati dalla pena e dalla sua entità, siano ancora forgiati su valori nel loro complesso estranei ad una valutazione uniforme di costi e benefici Le distanze concettuali tra diritto penale e la L&E non impediscono tuttavia il dialogo: chiedono solo chiarezza d’intenti. Questo studio ha trattato un solo versante del rapporto tra diritto ed economia. Giocando sulle espressioni, non si è chiesto “cosa il diritto possa fare per l’economia” -che è molto ed è materia di politica economica del diritto- “ma cosa l’economia possa fare per il diritto”, offrendo strumenti di analisi e misura degli effetti determinati dall’applicazione di regole giuridiche. L’uso stesso dell’acronimo L&E qui tradisce una versione volutamente autoriduttiva del rapporto tra diritto ed economia. Law & Economics anziché Economic Analysis of Law (analisi economica del diritto): nei fatti rappresentano la stessa materia, nelle parole due discipline separate. Diritto ed economia, qui si presentano distinte, ma tentano di capirsi e d’imparare l’una dall’altra. Un atteggiamento voluto, per esorcizzare entusiasmo facile e disillusione ancora più facile. Un procedere cauto, per arrivare a un’analisi economicistica del diritto in grado di contribuire a una politica criminale orientata allo scopo. Lavorando sulla base utilitaristica di corrispondenza tra il principio sociale di utilità e, quindi, di efficienza – efficacia – legittimità - giustizia della legislazione penale, l’analisi economica del reato può offrire un programma di tutto rispetto, vale a dire la possibilità di pronosticare la validità di una norma secondo una valutazione costi-benefici. Come si è visto, presupposto di quest’analisi è considerare il diritto un meccanismo di allocazione di risorse scarse, come tali potenziali cause di conflitti e bisognose di ottimizzare queste stesse risorse secondo efficienza di mezzo ed efficacia di scopo. Così facendo, l’analisi economica del diritto diventa strumento d’indirizzo dei comportamenti mediante incentivi e disincentivi fondati sulla razionalità dei comportamenti adottati dai destinatari della norma. Come strumento di allocazione di risorse secondo obiettivi di efficienza economica, il diritto si potrebbe sottrarre a un discorso di giustizia distributiva cui subordinare ragioni di efficienza economica. Un dialogo ermeneutico con gli strumenti dell’economia può diventare comprensione sulle condizioni che permettono la nascita della legge e la sua trasformazione in diritto. Una comprensione che prima chiede di comprendere se stessa: sia nei pre-giudizi dei legislatori e dei giudici che consentono loro d’intendere la vita e di formare su di essi le norme; sia nei pre-giudizi che costituiscono gli assiomi su cui una scienza fonda i propri modelli interpretativi. Questo è proprio il caso della L&E, quando elabora modelli di analisi in cui si presuppone la razionalità delle scelte operate dall’homo oeconomicus fino a prova contraria. D’altra parte, avventurandosi in previsioni comportamentali con modelli matematici, difficilmente un dialogo potrebbe essere più vicino all’ermeneutica. Non meno della finanza comportamentale per l’economia, la sfida dell’ermeneutica per il diritto è di portare razionalità nell’irrazionale che la norma giuridica si trova a gestire d’ufficio, offrendo struttura e comunicabilità alla logica deontica che informa l’ordinamento nel valutare le proprietà formali dei concetti di «obbligo» «divieto» «permesso». Comprese le condizioni dell’ermeneutica che sorreggono il rapporto tra la L&E e il diritto penale si può quindi tracciare un metodo con cui procedere all’interpretazione, perché se l’aspetto razionale non esaurisce l’idea dell’uomo, nemmeno la nega. Nella tavolozza dei colori che disegnano i vari omuncoli con cui il diritto confronta condotte concrete a standard auspicati, la razionalità dell’homo oeconomicus esiste e, come si è visto per alcune tipologie di reato, è pure un colore dominante. In conclusione, la L&E è un metodo per leggere il diritto, non una soluzione al diritto. Un metodo non sempre applicabile. Il diritto ha una struttura relazionale che non cerca identità ma corrispondenze. La sua individuazione si fonda su un principio analogico il cui termine di confronto è l’uomo con il suo interesse per alcuni beni. Quando i comportamenti dell’uomo non sono dettati da valutazioni ricondotte allo schema costi-benefici, la L&E è esclusa dal ragionamento giuridico. Le osservazioni su razionalità delle condotte e fungibilità dei beni coinvolti offrono però notevoli margini di avvicinamento tra i modelli interpretativi del diritto e dell’economia. A partire dalle possibilità euristiche offerte da un qualche grado di formalizzazione delle componenti su cui si forma l’intervento penalistico, in un’ottica che ne esalti l’efficacia, e dunque lo scopo da raggiungere, ancor prima di mera efficienza basata sul solo risparmio delle risorse. E se è pur vero che, nel diritto penale, la scala di valori ha il suo apice nella difesa della persona, ed è perlomeno difficile tradurla in costi, lo spartito della tutela penale comprende anche interessi e ragionamenti costruiti su una valutazione costi-benefici che possono trovare risposte sanzionatorie alternative alla privazione della libertà. Uno spartito sempre scritto a due mani perché, al rispetto per la persona, deve unirsi l’esigenza di difesa che il diritto definisce come «utilità sociale»: un concetto a sua volta vicino, molto vicino, a quanto nei modelli di analisi comportamentale l’economia chiama «benessere sociale».
La ricchezze delle sanzioni
BONDI, ALESSANDRO
2009
Abstract
Questo studio accenna alle possibilità di dialogo tra le monadi delle norme penali e quelle dei fattori economici. A tale scopo, cerca una mediazione concettuale nelle venture dell’analisi economica del reato. Analisi che, su un modello di razionalità economica volta a portare al massimo l’utile comune, ritiene ogni attività umana predisposta a sostituire una azione peggiore con una migliore. Un modello di razionalità che, l’analisi economica, adotta anche per la definizione di reato e la prevenzione delle condotte devianti che lo compongono. Un modello finora contestato dal diritto penale in quanto, pur considerando con larghezza l’idea di «miglioramento di una situazione» proposto dalla stessa analisi economica, vincola le scelte comportamentali a un monotematico schema costi-benefici: uno schema che nella sua rigidità rappresentata dal pensiero fondante della scuola di Chicago, non rispecchierebbe veramente un prototipo di qualche umanità. In altre parole, questo tipo di analisi comportamentale fondata su fattori economici sembrerebbe ignorare, anziché solo selezionare, le infinite pulsioni dell’uomo; pulsioni che le scienze penalistiche ritengono comunque presenti, anche quando si tratta di condotte che coinvolgono beni di natura patrimoniale in bilico tra esigenze individuali e necessità sociali. La prospettiva dischiusa dalla L&E è affascinante. Da un lato, ammalia considerare il diritto come un mero sistema di allocazione delle responsabilità tra i soggetti coinvolti in un’attività. Dall’altro, tranquillizza semplificare l’analisi delle devianze con soluzioni volte sia a massimizzare il risultato comune, sia a minimizzare i costi complessivi delle attività in conflitto. In sostanza, la L&E offre una teoria comportamentale che si dice in grado di contrapporre un’affidabile valutazione secondo costi-benefici a scelte normative fondate sul solo «buon senso». Coerentemente, la L&E non esita a scommettere sulla propria capacità di adattare le teorie economiche alle esigenze giuridiche, quantificando le necessità del diritto in virtù di un’analisi che si fa largo nel sociale a colpi di matematica. Qui ci si affanna in particolar modo sulla fase di produzione e interpretazione delle norme penali, con uno spazio comune infine lasciato all’ermeneutica nella gestione del diritto. Se fosse rivolta alla sola fase applicativa del diritto penale, i tratti generali di questa analisi obbligherebbero ad un discorso strutturalmente diverso. Un discorso che esaminasse, ad esempio, gli spazi giudiziali per considerazioni economiche nella valutazione d’interessi in conflitto legati a cause di giustificazione, a scusanti, alla commisurazione della pena, meriterebbe approfondimenti niente affatto scontati sull’inglobamento di stime politico-criminali nella definizione giudiziale del diritto. In breve: sono altre le forze che occorrerebbe raccogliere per affrontare le considerazioni giudiziali ammesse in un contesto di tassativa applicazione delle disposizioni che incidono con la pena sulla persona. La L&E lavora in effetti su una certa immagine del mondo. Vi vede scarsità di risorse e diversità di preferenze sulla loro distribuzione. Per Lei, il mondo è un luogo di conflitti potenziali. La L&E ha per di più una certa idea dell’uomo che abita questo mondo. Vi vede un essere capace di decidere in libertà e secondo ragione, cercando la massima utilità con decisioni non contraddittorie tra loro. Per Lei, l’uomo è un produttore di scelte razionali autonome e transitive. La L&E cerca infine un certo strumento per operare sulle preferenze dell’uomo che abita questo mondo. Lo vuole efficiente nell’allocazione delle risorse quand’è ispirato ad un modello tendenziale di concorrenzialità perfetta. Per Lei, la scelta dello strumento cade inevitabilmente sul mercato. E quando il mercato bene non serve al diritto, perché gli uomini sembrano essere meno reattivi alle sanzioni giuridiche rispetto ai prezzi delle merci, la L&E decide di operare con una branca della microeconomia che s’interessa precipuamente dei comportamenti strategici: la teoria dei giochi. Com’è normale in un discorso interdisciplinare, occorre però trovare un piano comune alla scienza del diritto come a quella dell’economia. Un piano necessario per discernere il mito dalla realtà riferita alla razionalità dell’homo oeconomicus e, così, tentare di capire il suo essere homo con interrelazioni soggettive e ambientali anche di natura economico-razionale. In breve: occorre trovare un piano che permetta al diritto di svolgere la sua funzione regolatrice, ragionando su criminologia e politica criminale dedicata alle condotte di persone la cui razionalità è solo un elemento di più complicate relazioni che si svolgono sul piano dei fatti come su quello delle norme e della loro conoscenza. Esaltata la funzione di deterrenza legata alla minaccia di sanzione, nel mercato delle pene una condotta è socialmente desiderabile solo quando il beneficio del privato è superiore al costo sociale. In base al rapporto costi-benefici, risulta economicamente utile vietare solo quelle attività con alti danni sociali, bassi benefici privati e ridotti costi di controllo. Applicando la formula di BECKER, una politica repressiva ottimale dovrebbe pertanto prevedere una sanzione altissima, comminata con una probabilità bassissima di condanna. Questa combinazione offrirebbe il modo più economico per esercitare la deterrenza, riducendo gli investimenti sulle attività di controllo grazie all’aumento della sanzione. Questa posizione lascia però perplessi, anche limitando il campo di applicazione alla sola pena pecuniaria. In generale, la formula di BECKER lascia all’ultima indefinita variabile (u) gran parte del peso criminologico e dogmatico di gestione della devianza criminale, limitandosi a rivitalizzare assunti che molto devono alle valutazioni “psicologiche” di BECCARIA e al diverso contesto in cui si sono sviluppati oppure, com’è il caso della seconda variabile (f), non trovano risposte univoche negli studi empirici. La stessa criminologia è scettica sulla possibilità che la severità della pena e la probabilità della condanna possano incidere sul tasso di criminalità legato, per esempio, a fenomeni sub-culturali o a patologie psichiatriche; stesso discorso di fronte a divieti non condivisi dalla società come la proibizione di vendita degli alcolici negli Stati Uniti (1919-1933) o, per contro, rispetto alla dubbia efficacia della pena di morte in paesi che pur la condividono e praticano con triste frequenza e pubblicità. Non si può nemmeno condividere il paradigma di POSNER quando sostiene che «la funzione del diritto penale è quella d’imporre costi addizionali alla condotta illegale quando i rimedi convenzionali al danno sarebbero insufficienti a limitare questa condotta a un livello efficiente». Nella prospettiva penalistica, questa definizione sembra confondere lo strumento con lo scopo. Non è compito del diritto penale stabilire costi, ma comminare pene finalizzandole alla tutela come ultima ratio di beni giuridici individuati con lo sguardo rivolto alla Costituzione. Volgendo il discorso ai «rimedi normativi», la definizione di POSNER tutt’al più si avvicina ad una vetero concezione sanzionatoria del diritto penale. Una concezione lontana dalla realtà operativa e ideale di questo diritto che, pur quando appare intento a comminare pene per la violazione di precetti definiti fuori dal diritto penale, tuttavia chiede che la norma nel suo complesso sia sempre compatibile con i principi che ne legittimano l’esistenza. Detto in successione cronologica: esaltare la mera funzione sanzionatoria del diritto penale, prima, fa strage della funzione almeno ideale di orientamento generale e di recupero individuale del reo, poi, infierisce sulle ragioni che impongono di cercare in ogni norma sanzionata con pena i principi di materialità nel divenire, di offensività nel ferire, di colpevolezza nel rispondere. È bene prendere atto che il sistema penale e strutturalmente diseconomico: tutela diritti mediante la lesione di altri diritti. Nell’immediato, la pena comporta alla collettività dei costi che producono ulteriori danni senza riparare il danno originale. Il mercato della pena è inoltre inquinato ed atipico. Inquinato da considerazioni non riconducibili sempre a razionalità, e atipico perché ha come scopo quello di scoraggiare tanto la domanda di pena da parte del reo quanto l’offerta di pena da parte dello Stato a favore di un bene finale non quantificabile qual è la sicurezza sociale. Anche come strumento di mera allocazione del rischio, la responsabilità penale va perciò oltre un discorso di costi, servendo la tutela di beni giuridici considerati secondo una scala di valori che ottengono ulteriori valutazioni politico-criminali all’interno del sistema con le categorie dell’antigiuridicità, della colpevolezza e della punibilità. Se è poi verosimile che la responsabilità penale possa settorialmente rispondere ad un ordine di incentivi e disincentivi accomunabile a quello suggerito dalla L&E, ciò non esclude che gli incentivi e disincentivi rappresentati dalla pena e dalla sua entità, siano ancora forgiati su valori nel loro complesso estranei ad una valutazione uniforme di costi e benefici Le distanze concettuali tra diritto penale e la L&E non impediscono tuttavia il dialogo: chiedono solo chiarezza d’intenti. Questo studio ha trattato un solo versante del rapporto tra diritto ed economia. Giocando sulle espressioni, non si è chiesto “cosa il diritto possa fare per l’economia” -che è molto ed è materia di politica economica del diritto- “ma cosa l’economia possa fare per il diritto”, offrendo strumenti di analisi e misura degli effetti determinati dall’applicazione di regole giuridiche. L’uso stesso dell’acronimo L&E qui tradisce una versione volutamente autoriduttiva del rapporto tra diritto ed economia. Law & Economics anziché Economic Analysis of Law (analisi economica del diritto): nei fatti rappresentano la stessa materia, nelle parole due discipline separate. Diritto ed economia, qui si presentano distinte, ma tentano di capirsi e d’imparare l’una dall’altra. Un atteggiamento voluto, per esorcizzare entusiasmo facile e disillusione ancora più facile. Un procedere cauto, per arrivare a un’analisi economicistica del diritto in grado di contribuire a una politica criminale orientata allo scopo. Lavorando sulla base utilitaristica di corrispondenza tra il principio sociale di utilità e, quindi, di efficienza – efficacia – legittimità - giustizia della legislazione penale, l’analisi economica del reato può offrire un programma di tutto rispetto, vale a dire la possibilità di pronosticare la validità di una norma secondo una valutazione costi-benefici. Come si è visto, presupposto di quest’analisi è considerare il diritto un meccanismo di allocazione di risorse scarse, come tali potenziali cause di conflitti e bisognose di ottimizzare queste stesse risorse secondo efficienza di mezzo ed efficacia di scopo. Così facendo, l’analisi economica del diritto diventa strumento d’indirizzo dei comportamenti mediante incentivi e disincentivi fondati sulla razionalità dei comportamenti adottati dai destinatari della norma. Come strumento di allocazione di risorse secondo obiettivi di efficienza economica, il diritto si potrebbe sottrarre a un discorso di giustizia distributiva cui subordinare ragioni di efficienza economica. Un dialogo ermeneutico con gli strumenti dell’economia può diventare comprensione sulle condizioni che permettono la nascita della legge e la sua trasformazione in diritto. Una comprensione che prima chiede di comprendere se stessa: sia nei pre-giudizi dei legislatori e dei giudici che consentono loro d’intendere la vita e di formare su di essi le norme; sia nei pre-giudizi che costituiscono gli assiomi su cui una scienza fonda i propri modelli interpretativi. Questo è proprio il caso della L&E, quando elabora modelli di analisi in cui si presuppone la razionalità delle scelte operate dall’homo oeconomicus fino a prova contraria. D’altra parte, avventurandosi in previsioni comportamentali con modelli matematici, difficilmente un dialogo potrebbe essere più vicino all’ermeneutica. Non meno della finanza comportamentale per l’economia, la sfida dell’ermeneutica per il diritto è di portare razionalità nell’irrazionale che la norma giuridica si trova a gestire d’ufficio, offrendo struttura e comunicabilità alla logica deontica che informa l’ordinamento nel valutare le proprietà formali dei concetti di «obbligo» «divieto» «permesso». Comprese le condizioni dell’ermeneutica che sorreggono il rapporto tra la L&E e il diritto penale si può quindi tracciare un metodo con cui procedere all’interpretazione, perché se l’aspetto razionale non esaurisce l’idea dell’uomo, nemmeno la nega. Nella tavolozza dei colori che disegnano i vari omuncoli con cui il diritto confronta condotte concrete a standard auspicati, la razionalità dell’homo oeconomicus esiste e, come si è visto per alcune tipologie di reato, è pure un colore dominante. In conclusione, la L&E è un metodo per leggere il diritto, non una soluzione al diritto. Un metodo non sempre applicabile. Il diritto ha una struttura relazionale che non cerca identità ma corrispondenze. La sua individuazione si fonda su un principio analogico il cui termine di confronto è l’uomo con il suo interesse per alcuni beni. Quando i comportamenti dell’uomo non sono dettati da valutazioni ricondotte allo schema costi-benefici, la L&E è esclusa dal ragionamento giuridico. Le osservazioni su razionalità delle condotte e fungibilità dei beni coinvolti offrono però notevoli margini di avvicinamento tra i modelli interpretativi del diritto e dell’economia. A partire dalle possibilità euristiche offerte da un qualche grado di formalizzazione delle componenti su cui si forma l’intervento penalistico, in un’ottica che ne esalti l’efficacia, e dunque lo scopo da raggiungere, ancor prima di mera efficienza basata sul solo risparmio delle risorse. E se è pur vero che, nel diritto penale, la scala di valori ha il suo apice nella difesa della persona, ed è perlomeno difficile tradurla in costi, lo spartito della tutela penale comprende anche interessi e ragionamenti costruiti su una valutazione costi-benefici che possono trovare risposte sanzionatorie alternative alla privazione della libertà. Uno spartito sempre scritto a due mani perché, al rispetto per la persona, deve unirsi l’esigenza di difesa che il diritto definisce come «utilità sociale»: un concetto a sua volta vicino, molto vicino, a quanto nei modelli di analisi comportamentale l’economia chiama «benessere sociale».I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.