Dodici sono le scuri che Odisseo «soleva piantare in fila come puntelli, nella sua casa; ed egli con una freccia le attraversava da molto lontano. […] chi con la mano tenderà l’arco più facilmente, e infilerà con la freccia tutte le dodici scuri» sarà scelto da Penelope come suo sposo. Sono dodici tra cento otto pretendenti – giunti in cinquantadue da Dulichio, in ventiquattro da Samo e in venti da Zacinto – i proci che appartengono all’aristocrazia itacese. «Dodici scudi, dodici lance e dodici elmi d i bronzo» sono gli equipaggiamenti sottratti da Melanzio dalle stanze alte del palazzo dei Laerziadi e consegnati ai proci, affinché fronteggino la furia di Odisseo e il suo desiderio di sterminio. E non a caso sono dodici, delle cinquanta donne che servono Penelope, le schiave che Euriclea denuncia, affinché vengano giustiziate per «l’amore che offrivano ai pretendenti, unendosi loro in segreto». Più distante dal racconto della vendetta di Odisseo, ma solo all’apparenza, l’indizio principale lasciato dagli aedi: «Dodici insigni basilees capi governano presso il popolo, il tredicesimo sono io stesso» afferma Alcinoo, re dei Feaci. E in un istante è come trovarsi davanti a la lettera rubata. Si tratta infatti di versi tra i più significativi e noti a sostegno dell’ipotesi di una monarchia di tipo meritocratico circa le forme di governo rappresentate nell’epica omerica, ma che divengono ulteriormente illuminanti se usati attraverso una diversa chiave di lettura, dove il dodici sembra la cifra di un gioco di specchi che si rimandano l’uno all’altro, svelando una volta di più l’intenzione degli aedi di affermare il valore della pace sociale contro il rischio della disgregazione all’interno delle comunità. Il racconto tradizionale viene rimodellato dagli aedi non solo per il necessario adattamento della storia al contesto culturale di volta in volta attuale alla composizione, ma anche in vista di offrire di quella stessa cultura una propria interpretazione e in ultima analisi di proporre possibilità di vita e di relazioni anche diverse. Un’indicazione che supera, dunque, la funzione di immagazzinaggio delle informazioni che viene attribuita solitamente all’epica o ad altre forme di narrazione in contesti in cui prevale la cultura orale. In questa finalità si coglie come il racconto aedico si concretizzi in una narrazione giuridica, poiché incide nel patrimonio di senso del proprio pubblico, svolgendo attraverso l’intrattenimento una funzione anche critica e costruttiva di valori e regole di comportamento. Un compito che, non limitandosi alla sfera del dover essere, non va inteso come educativo in senso stretto. Quando interviene nei processi di giuridificazione, la poesia mostra anche un “poter essere” del diritto e della legge, attraverso il pensiero creativo e visionario – proprio del sentire dell’arte – di chi compone l’opera.

Lo specchio di Itaca

MITTICA, MARIA PAOLA
2009

Abstract

Dodici sono le scuri che Odisseo «soleva piantare in fila come puntelli, nella sua casa; ed egli con una freccia le attraversava da molto lontano. […] chi con la mano tenderà l’arco più facilmente, e infilerà con la freccia tutte le dodici scuri» sarà scelto da Penelope come suo sposo. Sono dodici tra cento otto pretendenti – giunti in cinquantadue da Dulichio, in ventiquattro da Samo e in venti da Zacinto – i proci che appartengono all’aristocrazia itacese. «Dodici scudi, dodici lance e dodici elmi d i bronzo» sono gli equipaggiamenti sottratti da Melanzio dalle stanze alte del palazzo dei Laerziadi e consegnati ai proci, affinché fronteggino la furia di Odisseo e il suo desiderio di sterminio. E non a caso sono dodici, delle cinquanta donne che servono Penelope, le schiave che Euriclea denuncia, affinché vengano giustiziate per «l’amore che offrivano ai pretendenti, unendosi loro in segreto». Più distante dal racconto della vendetta di Odisseo, ma solo all’apparenza, l’indizio principale lasciato dagli aedi: «Dodici insigni basilees capi governano presso il popolo, il tredicesimo sono io stesso» afferma Alcinoo, re dei Feaci. E in un istante è come trovarsi davanti a la lettera rubata. Si tratta infatti di versi tra i più significativi e noti a sostegno dell’ipotesi di una monarchia di tipo meritocratico circa le forme di governo rappresentate nell’epica omerica, ma che divengono ulteriormente illuminanti se usati attraverso una diversa chiave di lettura, dove il dodici sembra la cifra di un gioco di specchi che si rimandano l’uno all’altro, svelando una volta di più l’intenzione degli aedi di affermare il valore della pace sociale contro il rischio della disgregazione all’interno delle comunità. Il racconto tradizionale viene rimodellato dagli aedi non solo per il necessario adattamento della storia al contesto culturale di volta in volta attuale alla composizione, ma anche in vista di offrire di quella stessa cultura una propria interpretazione e in ultima analisi di proporre possibilità di vita e di relazioni anche diverse. Un’indicazione che supera, dunque, la funzione di immagazzinaggio delle informazioni che viene attribuita solitamente all’epica o ad altre forme di narrazione in contesti in cui prevale la cultura orale. In questa finalità si coglie come il racconto aedico si concretizzi in una narrazione giuridica, poiché incide nel patrimonio di senso del proprio pubblico, svolgendo attraverso l’intrattenimento una funzione anche critica e costruttiva di valori e regole di comportamento. Un compito che, non limitandosi alla sfera del dover essere, non va inteso come educativo in senso stretto. Quando interviene nei processi di giuridificazione, la poesia mostra anche un “poter essere” del diritto e della legge, attraverso il pensiero creativo e visionario – proprio del sentire dell’arte – di chi compone l’opera.
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11576/2300359
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