Il parallelo tra gli indiani d’America e i popoli dell’Antichità classica (greci e romani, ma anche sciti, germani…) è un luogo comune tra viaggiatori, coloni e missionari, già nel XVI secolo e a partire da Las Casas. Nel 1791 Chateaubriand compie un viaggio nell’America del Nord, che lo porta in contatto con indiani semiselvaggi (uroni e irochesi soprattutto). Nelle pagine, disseminate in varie opere, in cui rende conto di quell’esperienza, lo scrittore riprende a sua volta il parallelo. Il saggio si ripropone di fornire una prima rassegna degli elementi di continuità con la tradizione e degli elementi originali da lui introdotti nel topos. Quasi assente in Chateaubriand l’interrogativo circa l’origine degli indiani, tema invece cruciale nella tradizione, perché le soluzioni proposte cercavano di giustificare il silenzio della Bibbia (e di tutti gli autori classici) su questo popolo. Evitando di addentrarsi in ambito teologico, Chateaubriand menziona alcune delle risposte tradizionali nella prefazione al Voyage en Amérique e, all’interno dell’opera, a proposito delle rovine indiane di Scioto, che afferma di aver visitato. Significativamente, più che dalle soluzioni è affascinato dal mistero di tali origini, che gli ispira considerazioni sull’oscurità del passato già prettamente preromantiche. Altro tema tradizionale è quello che assimila (parzialmente giustificandola) la crudeltà degli indiani nei confronti dei prigionieri di guerra ad analoghi esempi di torture nell’Antichità. Nella giovanile saga dei Natchez e in Atala Chateaubriand inserisce scene di tortura, anche in questo caso avvicinando il tema a problematiche a lui più personali: la scena ancestrale ed edipica della messa a morte di un padre buono (attualizzata nella figura di Luigi XVI ghigliottinato), e la propria identificazione con ogni tipo di vittime. Molto spesso (in Montaigne per esempio) gli indiani sono stati paragonati ai greci e ai romani antichi con l’intento di nobilitarli, per reagire al disprezzo di cui erano vittime. Chateaubriand riprende il tema delle virtù “antiche” degli indiani, attualizzandolo: la principale virtù che riconosce loro è l’ospitalità (mentre è esule in Inghilterra e gli sembra di aver perso patria e famiglia); al “nobile” indiano attribuisce tratti dell’aristocrazia europea: valore guerriero, passione per la caccia, disinteresse (proprio mentre si affermano i valori nuovi della borghesia, sistematicamente screditati nelle opere di soggetto americano). Indiani e aristocratici appaiono ugualmente vittime del corso della storia, e destinati ad una prossima sparizione. Un ultimo aspetto del paragone tra indiani e antichi ha un valore più strettamente letterario: già nel XVIII secolo (in modo molto evidente nell’opera del gesuita padre Lafitau, oppure in Volney) il paragone si riverbera sulla visione che abbiamo dell’Antichità: se gli indiani assomigliano agli antichi, gli antichi erano simili a dei selvaggi. Questo nuovo modo di guardare agli antichi, che anche Chateaubriand fa suo, rende possibile il distacco dal classicismo di maniera, sempre più artificiale ed edulcorato, del Settecento, e media il passaggio al cosiddetto classicismo dei romantici, e più tardi al culto della barbarie che caratterizza la seconda metà dell’Ottocento.

Les Indiens et les Anciens: Chateaubriand héritier d'un parallèle tricentenaire

TOFFANO, PIERO
2009

Abstract

Il parallelo tra gli indiani d’America e i popoli dell’Antichità classica (greci e romani, ma anche sciti, germani…) è un luogo comune tra viaggiatori, coloni e missionari, già nel XVI secolo e a partire da Las Casas. Nel 1791 Chateaubriand compie un viaggio nell’America del Nord, che lo porta in contatto con indiani semiselvaggi (uroni e irochesi soprattutto). Nelle pagine, disseminate in varie opere, in cui rende conto di quell’esperienza, lo scrittore riprende a sua volta il parallelo. Il saggio si ripropone di fornire una prima rassegna degli elementi di continuità con la tradizione e degli elementi originali da lui introdotti nel topos. Quasi assente in Chateaubriand l’interrogativo circa l’origine degli indiani, tema invece cruciale nella tradizione, perché le soluzioni proposte cercavano di giustificare il silenzio della Bibbia (e di tutti gli autori classici) su questo popolo. Evitando di addentrarsi in ambito teologico, Chateaubriand menziona alcune delle risposte tradizionali nella prefazione al Voyage en Amérique e, all’interno dell’opera, a proposito delle rovine indiane di Scioto, che afferma di aver visitato. Significativamente, più che dalle soluzioni è affascinato dal mistero di tali origini, che gli ispira considerazioni sull’oscurità del passato già prettamente preromantiche. Altro tema tradizionale è quello che assimila (parzialmente giustificandola) la crudeltà degli indiani nei confronti dei prigionieri di guerra ad analoghi esempi di torture nell’Antichità. Nella giovanile saga dei Natchez e in Atala Chateaubriand inserisce scene di tortura, anche in questo caso avvicinando il tema a problematiche a lui più personali: la scena ancestrale ed edipica della messa a morte di un padre buono (attualizzata nella figura di Luigi XVI ghigliottinato), e la propria identificazione con ogni tipo di vittime. Molto spesso (in Montaigne per esempio) gli indiani sono stati paragonati ai greci e ai romani antichi con l’intento di nobilitarli, per reagire al disprezzo di cui erano vittime. Chateaubriand riprende il tema delle virtù “antiche” degli indiani, attualizzandolo: la principale virtù che riconosce loro è l’ospitalità (mentre è esule in Inghilterra e gli sembra di aver perso patria e famiglia); al “nobile” indiano attribuisce tratti dell’aristocrazia europea: valore guerriero, passione per la caccia, disinteresse (proprio mentre si affermano i valori nuovi della borghesia, sistematicamente screditati nelle opere di soggetto americano). Indiani e aristocratici appaiono ugualmente vittime del corso della storia, e destinati ad una prossima sparizione. Un ultimo aspetto del paragone tra indiani e antichi ha un valore più strettamente letterario: già nel XVIII secolo (in modo molto evidente nell’opera del gesuita padre Lafitau, oppure in Volney) il paragone si riverbera sulla visione che abbiamo dell’Antichità: se gli indiani assomigliano agli antichi, gli antichi erano simili a dei selvaggi. Questo nuovo modo di guardare agli antichi, che anche Chateaubriand fa suo, rende possibile il distacco dal classicismo di maniera, sempre più artificiale ed edulcorato, del Settecento, e media il passaggio al cosiddetto classicismo dei romantici, e più tardi al culto della barbarie che caratterizza la seconda metà dell’Ottocento.
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11576/2300551
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