Per chiarire il ruolo della clausola di buona fede prevista ora dall’art. 33, c. cons., tenuto conto della (diversa) funzione tradizionalmente assegnatale in sede contrattuale, occorre un chiarimento preliminare circa i suoi caratteri costitutivi. L’opinione prevalente postula, si è detto, da un lato la sua natura oggettiva, “nonostante” la contestata formulazione della norma e il mancato inserimento nella traslazione nel codice al consumo dell’inciso “in contrasto”; e, per altro verso, la sua definizione in base al principio del “non significativo squilibrio”, nel profilo contenutistico, e sulla scorta dei criteri di cui all’art. 34, 1° co., c. cons., in quello operativo. In generale può dirsi che si considerano vessatorie le clausole che, secondo una valutazione oggettiva di buona fede, operata alla luce di quei criteri, determinano un significativo squilibrio dei diritti ed obblighi reciproci. Il che sottolinea il carattere elastico del giudizio, che ha nei criteri di obiettività, specificità e complessità i suoi elementi connotativi. Fissati in tal modo i termini essenziali del discorso, si tratta di chiarire se alla clausola in esame debba riconoscersi una configurazione peculiare ed autonoma, o vada piuttosto collocata nella teoria delle altre formulazioni del principio solidaristico contenute nella disciplina generale del contratto. Problema che ha, ovviamente, una rilevanza sistematica, ma assume insieme una valenza pratica, poiché serve a definire le forme del suo concreto operare. In limine, il problema risiede nel fissare il contenuto ed i limiti dell’intervento eteronomo operato mediante la clausola di buona fede, che in tal senso può configurarsi come veicolo di principi e valori esterni al contratto, o essa stessa come principio cardine dell’ordinamento, destinato a “correggere”, in senso etico-sociale, il precetto negoziale. Comunque la s’intenda, la buona fede costituisce uno strumento di (de)limitazione dell’autonomia contrattuale, le cui modalità applicative spetta al giudice “concretizzare”, avendo cura di utilizzare parametri oggettivi, tali da non stravolgere il significato dell’”operazione economica” programmata dai contraenti. Nell’ampio dibattito sul recepimento della direttiva 93/13/CEE si pone in questa prospettiva d’indagine la tesi che attribuisce ad essa una valenza specifica, in rapporto all’ambito di controllo cui è preposta. Partendo dalla constatazione dell’assenza, nella Carta costituzionale, di un fondamento diretto della libertà contrattuale, si osserva che le diverse formulazioni del principio di correttezza che contrassegnano i rapporti obbligatori, specie di fonte contrattuale, non si giovano di “stampelle costituzionali”, ma trovano il proprio fondamento all’interno del sistema codicistico. La clausola generale di buona fede contenuta nell’art. 33, c. cons. costituirebbe, invece, lo strumento affidato dalla legge al giudice per attuare una “ri-regolamentazione” dei mercati di massa, e, come tale, troverebbe un fondamento diretto nella Costituzione, quale limite posto dalla legge alla libertà d’iniziativa economica (art. 41, 2° e 3° co., cost.). Tale ricostruzione presuppone, a ben vedere, che il giudizio di “ragionevolezza” abbia ad oggetto, non già un contegno negoziale, ma un’attività economica estranea alla vicenda contrattuale. Non vi è dubbio, in questo senso, che una certa peculiarità della clausola di buona fede in questione emerga, prima facie, dalla sua stessa definizione. L’art. 33, 1° co., c. cons. ne specifica, tanto l’oggetto (l’insieme di diritti ed obblighi derivanti dal contratto), quanto il criterio di discernimento (il significativo squilibrio), in ciò distinguendosi dalle altre formulazioni contrattuali. A ben vedere, se oggetto del giudizio fosse un comportamento della stessa natura di quello previsto dalle altre regole di correttezza – cioè, l’attività delle parti precedente, coeva o successiva alla conclusione del contratto – non sarebbe stato necessario precisarlo. Né sarebbe stato possibile specificarne il parametro contenutistico, che in quel caso si definisce, di volta in volta, all’interno e nel rispetto della regola privata, in rapporto alle circostanze irripetibili del caso concreto. Notazioni queste da cui, a contrario, si trae un primo argomento a favore del carattere speciale della clausola di buona fede in parola. Ma a sostegno di questa tesi milita un’altra osservazione di carattere generale. La clausola di buona fede serve qui a valutare, non solo la “vessatorietà” delle “clausole non oggetto di trattativa nello specifico contratto”, ma anche l’“abusività” delle “condizioni generali di contratto”. Dal che si deve dedurre, o che essa assume nei due casi una diversa conformazione, ovvero che essa prescinde, nella sua applicazione, dalle circostanze del caso concreto. Si è visto che il procedimento di controllo, proprio perché anche in occasione del giudizio individuale ha ad oggetto un comportamento di natura non negoziale, presenta un carattere generale ed astratto: talché anche ai criteri “soggettivi” – le circostanze esistenti al momento della conclusione del contratto ed il collegamento volontario – deve attribuirsi una connotazione ermeneutica “obiettiva”. La “concretezza” del giudizio viene così ad essere capovolta. Se è vero che nei contratti di massa entrambi i criteri di cui trattasi hanno di regola un contenuto (almeno socialmente) tipico, – derivante dalla standardizzazione delle dinamiche formative – l’interprete, più che ricostruirne la portata nel caso concreto, dovrà piuttosto verificare la ricorrenza di quegli standard comportamentali, traendone le conseguenze sul piano ermeneutico. A favore di questi rilievi depone, poi, un dato normativo inequivocabile: i criteri in esame non entrano nell’oggetto del giudizio di buona fede, ma sono “declassati” a meri criteri di accertamento (art. 34, 1° co., c. cons.). Se ad essi si fosse riconosciuta una valenza “soggettiva”, avrebbero concorso a definire quello che costituisce propriamente l’oggetto del controllo sul contratto “individuale”, ovvero il suo “contenuto” (art. 1322, 1° co., c.c.), quale sintesi di tutti gli atti e comportamenti che compongono l’”operazione economica”. Proprio perché oggetto di giudizio è, invece, lo standard di diritti ed obblighi consacrato nel modello predisposto, si è reso necessario richiamare tali criteri, onde delimitare modalità ed estensione del controllo, distinguendole dal suo oggetto specifico. Sia il criterio di complessità, che quello delle circostanze, hanno qui, dunque, la limitata funzione di fissare l’”ambito operativo” del giudizio di buona fede, che, sul piano contenutistico, assume un rilievo autonomo rispetto alla volontà dei contraenti, distinguendosi in tal modo dalle altre regole di correttezza in materia “contrattuale”. Non è possibile, allora, considerare la buona fede quale minimo comun denominatore tra disciplina generale del contratto ed artt. 33, ss., c. cons., poiché in questo caso essa non attiene alla sfera negoziale, ma è, piuttosto, lo strumento affidato dalla legge al giudice per sanzionare una speciale forma di abuso della libertà di iniziativa economica quale la predisposizione delle condizioni generali di contratto (normative). In questo senso si spiega la necessità di specificarne positivamente, oltre che i criteri applicativi, il parametro contenutistico, dato da un valore, quello di “ragionevolezza”, con tutta evidenza estraneo alla logica negoziale. Si tratta di un principio che trova, dunque, una coerente spiegazione solo assumendo a fondamento normativo del controllo contenutistico gli artt. 2 e 41 cost., il che riconduce la clausola di buona fede in parola nell’area di influenza del principio della correttezza nella concorrenza. Sulla base di questi rilievi, è possibile ora accennare ai profili essenziali che distinguono la clausola di buona fede in questione dalle (altre) formulazioni “contrattuali” del principio solidaristico. Quale “regola di condotta” nella predisposizione del contenuto del contratto, essa si distingue, innanzitutto, dal principio che sovrintende alle trattative precontrattuali, che, come detto, sono strutturalmente assenti nei contratti di massa. Tanto è vero che il legislatore ha previsto per essi speciali regole di informazione, attinenti alla fase che precede (per esempio, pubblicità), è coeva (per esempio, forma scritta) o sopravviene (per esempio, jus poenitendi) alla conclusione del contratto. L’attività precontrattuale viene in tal modo ad essere disseminata di una fitta rete di obblighi formali, entro i quali è praticamente impossibile scorgere un residuo spazio di operatività dell’art. 1337 c.c. Del resto, le particolari esigenze poste dalla contrattazione di massa spiegano il “ritorno al formalismo negoziale” con l’esigenza di tipizzare il procedimento (in)formativo, ed escludono, perciò, l’utilizzabilità, in questo ambito, di rimedi elastici, quale la clausola di buona fede precontrattuale. Ad un diverso momento della vicenda contrattuale fa riferimento la buona fede in executivis (art. 1375 c.c.), che non essendo fonte integrativa del contenuto del contratto, riguarda, non già l’attività determinativa del regolamento di interessi, ma il principio di solidarietà e correttezza nell’esecuzione degli obblighi contrattuali. Quale “regola di valutazione” della “ragionevolezza” dell’attività di predisposizione, la clausola generale di buona fede si distingue, invece, dall’art. 1366 c.c., sia che a tale norma si assegni natura interpretativa, sia anche, e a maggior ragione, ove le si attribuisca una funzione “correttiva” dei risultati raggiunti applicando le altre regole ermeneutiche. Quale criterio ermeneutico generale, tale giudizio a posteriori è incompatibile con il rimedio inibitorio, che ha carattere preventivo e prescinde da uno specifico rapporto. Resterebbe, quale ambito applicativo, l’azione individuale. Ma anche in tal caso l’art. 1366 c.c. non è utilizzabile, e la migliore riprova è data proprio dalle considerazioni espresse in proposito dalla dottrina che ne teorizza la portata generale. Si ritiene infatti che, ove le clausole siano state oggetto di negoziato, o comunque nel caso in cui non ricorrano i presupposti soggettivi di applicabilità, accanto al controllo previsto dagli artt. 33, ss., c. cons. possa aver luogo un giudizio di vessatorietà ex art. 1366 c.c. Ma in tal modo la nuova clausola di buona fede si ridurrebbe, a ben vedere, ad una speciale forma espressiva dell’altra, tanto che potrebbe ritenersi superfluo il richiamo al “non significativo squilibrio”. In realtà, ipotizzando un doppio test di correttezza non si fa che sottolineare il discrimine che esiste tra contratti negoziati e non negoziati: per cui deve escludersi che tra i due rimedi intercorra un rapporto di specialità o di specificità. Vero è, invece, che in un caso la buona fede è criterio “concorrente” e “sussidiario” di interpretazione del precetto negoziale, mentre nell’altro è criterio “obiettivo” ed “esclusivo” di valutazione dell’attività economica di predisposizione. Non ha pregio, dunque, cercare un diverso strumento di tutela per i piccoli e medi imprenditori: il richiamo all’art. 1366 c.c. servirebbe, in questo senso, solo a sminuire la portata della clausola in esame, decretandone, in ultima analisi, la sostanziale irrilevanza. Ad essa deve, al contrario, riconoscersi la funzione di strumento attuativo di quel principio di “ragionevolezza” la cui applicazione consente di individuare, per ciascun contratto di massa, lo standard normativo equilibrato, e con esso la disciplina applicabile. Un’ultima notazione. Potrebbe obiettarsi che uno strumento di controllo così concepito possa costituire un pericolo per la certezza del diritto: argomentazione, questa, tradizionalmente utilizzata dalla giurisprudenza per giustificare il mancato utilizzo delle clausole generali. In proposito, se, in generale, si condivide il rilievo per cui «la certezza del diritto può essere messa in pericolo, non meno che se si applichi una clausola generale, anche quando le norme da applicare siano molte», sembra, comunque, che in tal caso quel rischio si riduca sensibilmente, considerando che la clausola generale si definisce contenutisticamente in base al criterio di “ragionevolezza”, – allontanando così i timori derivanti da una possibile drittwirkung del principio di utilità sociale – e si specifica, sul piano applicativo, in virtù dei criteri di accertamento. Assai diffusa nel dibattito in materia è l’idea che l’avvento della disciplina dei contratti del consumatore segni il definitivo tramonto della categoria generale del contratto. Questa idea prende corpo in due principali filoni argomentativi, il cui esame costituisce la premessa necessaria a verificare il mutamento di singole parti del sistema. Per comodità espositiva essi saranno analizzati in modo distinto, ancorché risultino, sotto vari aspetti, strettamente correlati. Secondo un primo indirizzo, la nuova disciplina porterebbe a compimento, sul piano sistematico, un fenomeno normativo da tempo in atto, fondato sullo status del consumatore, determinando una bipartizione tra contratti commerciali e contratti del consumatore, e, quindi, la rottura dell’unità del diritto dei contratti, basato sul principio di uguaglianza formale dei contraenti. L’indagine sin qui svolta conduce, invece, in una diversa direzione, nella quale la nozione di “consumatore” non rileva, sul piano giuridico, in ragione della sua dimensione soggettiva, bensì per le modalità oggettive di conclusione del contratto. L’orientamento che si critica si traduce, sul piano sistematico, in una “divisione dei compiti” tra gli artt. 1341, 1342 e 1370 c.c., da una parte, e gli artt. 33, ss., c. cons., dall’altra. L’area di influenza dei primi comprenderebbe: a) i contratti tra imprenditori; b) i contratti tra consumatori; c) i contratti tra impresa e persona giuridica; d) gli acquisti a uso promiscuo; e) gli acquisti “congiunti”; sarebbero invece soggetti ai secondi i contratti in cui controparte dell’impresa predisponente sia una persona fisica, che acquisti il bene o usufruisca del servizio per scopi di consumo personale. Ma ciò significa, in sostanza, negare all’aderente ogni protezione, se è vero che, mentre delle regole interpretative (artt. 1342, 1° co. e 1370 c.c.) si è ampiamente sperimentata la sostanziale inefficienza, gli artt. 1341 e 1342, 2° co., c.c. hanno la diversa funzione di consentire l’efficacia delle condizioni generali di contratto. Notazione, questa, che rappresenta, evidentemente, una obiezione di carattere generale alla postulata distinzione tra i regimi protettivi. Lungo la linea indicata, pare ugualmente opinabile la principale conseguenza che si fa derivare dalla asserita bipartizione tra contratti commerciali e contratti del consumatore: il superamento del principio di uguaglianza formale. Il fatto che, nell’ambito della disciplina generale del contratto, è previsto che il micro-sistema normativo dei contratti standard sia caratterizzato dalla possibile mancanza di trattative individuali, suggerisce una diversa lettura del problema. Nei contratti per adesione il rapporto tra le parti non è fondato, come per il contratto individuale, sull’uguaglianza formale dei contraenti, semplicemente perché, mancando un negoziato, viene meno lo stesso presupposto che giustifica la vigenza di quel principio. Si può dire, anzi, che utilizzatore e aderente sono sì “uguali”, ma nel senso di non poter apportare alcuna modifica al modulo predisposto. Non è dunque, che nei contratti di massa può non esservi uguaglianza formale dei contraenti perché, in ragione del diverso status, esiste “una diseguaglianza sostanziale tra le parti”, ma per il fatto che essi, per loro natura, non possono che essere non negoziati. Si tratta di una circostanza indotta, non da un dato strutturale qualificativo di una categoria contrattuale, ma dalla posizione di supremazia del “predisponente”, quale condizione immanente al mercato, precedente ed esterna alla dimensione “negoziale” del rapporto contrattuale. Tanto è vero che il principio di uguaglianza formale resta in via di principio vigente, nella prevista (ancorché remota) possibilità che nei contratti standard si attui un negoziato, senza, perciò, che, sul piano sistematico, all’opposta evenienza possa attribuirsi una valenza derogatoria. Quanto precede si riferisce alla componente normativa del contratto. Riguardo alle condizioni economiche, va detto invece che, nel momento in cui effettua la “scelta” tra le offerte concorrenti, il consumatore pare essere in posizione di uguaglianza formale rispetto all’altro “contraente”. Né quel rapporto può dirsi alterato dall’eventuale mancanza di trasparenza dell’offerta economica, poiché il fatto che la scelta sia priva in quel caso della necessaria consapevolezza informativa, dipende da una condizione esterna alla vicenda contrattuale. Pare, dunque, lecito affermare che il principio di uguaglianza formale mantiene intatta la propria valenza riguardo a(lla componente “individuale” de)i contratti di massa, poiché ove le condizioni generali siano non negoziate, non ricorrono i presupposti che ne giustificano la vigenza. Parallelamente all’orientamento “soggettivo”, è diffusa altresì la convinzione che la nuova disciplina comporti una deroga generalizzata al principio di libertà contrattuale. Si sarebbe aperta una breccia nel sistema, per cui la sfera negoziale diverrebbe oggetto di un intervento esterno, avulso dal potere determinativo delle parti contraenti. Ma pare evidente come dell’intervento autoritativo del giudice non possa parlarsi come di una limitazione generalizzata del potere autoregolamentare, proprio perché esso ha luogo nell’ipotesi, prevista dallo stesso ordinamento, che il contenuto del contratto standard sia non negoziato. Il fatto che il regolamento normativo dei contratti di massa sia, per sua natura, non negoziabile, spiega perché, anche nelle leggi speciali di derivazione comunitaria, contrariamente a quanto avviene comunemente la componente normativa del contratto è determinata autoritativamente, e non quale ius dispositivum. Si potrebbe obiettare che nella legislazione speciale sono evidenti una serie di limitazioni della libertà contrattuale. A ben vedere, si tratta però di norme settoriali, il cui fondamento va cercato nell’ambito dei limiti posti dalla legge al libero dispiegarsi dell’autonomia privata, in virtù di un preminente interesse pubblico. Esse concernono, infatti, la forma ed il contenuto astratto minimo delle “condizioni economiche”, da un lato, e la “volontà come fonte del vincolo obbligatorio”, dall’altro, e cioè quei profili dell’autonomia contrattuale che costituiscono il “nucleo individuale” dei contratti di massa. Nel nuovo regime protettivo si verifica, in vero, uno spostamento dell’ottica di tutela, dalla sfera “interna” all’atto di autonomia privata, a una dimensione “esterna” ad esso, la disciplina giuridica del mercato, che non determina alcuna frattura all’interno del diritto dei contratti, poiché è lo stesso ordinamento che contempla (artt. 1341, 1° co. e 1342, 1° co., c.c.), ed ora attribuisce rilievo normativo (artt. 33, ss., c. cons.), alla “possibilità” che nei contratti standard il contenuto contrattuale sia riferibile all’attività economica di predisposizione, ove, in assenza di trattative, esso non transiti sul piano “negoziale”. La nuova disciplina va in tal modo a congiungersi (art. 1323 c.c.), distinguendosene, ad un sistema nel quale – ancorché entro i limiti di rilevanza pratica progressivamente ridotti che derivano dalle numerose limitazioni tipiche che concernono le sue diverse espressioni – mantiene valenza generale il principio di autonomia negoziale, inteso nella sua piena espressività, comprensiva, quindi, anche del profilo indicato dall’art. 1322, 1° co., c.c.. Conclusivamente può dirsi che gli artt. 33 ss. c. cons. rappresentano un sistema di regole di controllo dell’attività economica di predisposizione, che si congiunge organicamente con la disciplina di formazione del contratto standard. A tale conclusione non è di ostacolo, si è visto, il diverso ambito oggettivo dei due gruppi normativi, posto che il loro comune fondamento sistematico è dato dalla prevista possibilità dell’assenza di negoziato, che nell’art. 1341, 1° co., c.c. poggia sul concetto di conoscibilità, secondo un meccanismo chiaramente diretto a favorire le imprese. A fronte di un modello formativo nel quale, sul fondamento del principio di autoresponsabilità della parte aderente, si “accantona” il giudizio di merito sulle clausole non negoziate, il sistema previgente si limitava a predisporre talune cautele formali, poiché, per il resto, l’intera impalcatura di controlli presente nel codice civile ha riguardo al contratto “individuale”. In questa fessura all’interno dell’ordinamento si inserisce ora la normativa “orizzontale” dei contratti del consumatore, quale disciplina di contenuti di quella parte, preponderante, dei contratti standard, la cui regolamentazione è funzionale alla integrazione dei mercati. Giova ricordare, in tal senso, che le ragioni che stanno alla base dell’introduzione della disciplina a tutela del consumatore fanno capo alle politiche promosse della Comunità europea in vista della creazione del mercato unico. A questa circostanza si collega il problema di individuare, nell’ordinamento interno, il fondamento normativo del nuovo regime protettivo, che, data la natura dell’attività oggetto di controllo, si è identificato negli artt. 2 e 41 cost. Nella prospettiva di chi attribuisce alla “Costituzione economica” una valenza “non definita”, che si determina in ragione delle preminenti istanze solidaristiche (art. 3, 2° co., cost.), il problema della compatibilità dell’art. 41 cost. con il “fattore” comunitario si risolve mediante la “rilettura” della norma nel senso del primato del mercato, adottandola a raccordo sistematico dei principi e delle regole di fonte comunitaria, preposti alla ri-regolamentazione dei mercati di massa. Ma se tali sono le ragioni politiche ed il fondamento normativo del nuovo sistema di controllo, è evidente come esso affondi le proprie radici giustificative in quegli aspetti caratterizzanti il fenomeno, che sin dalle sue origini sono stati consapevolmente individuati dalla dottrina. Il principio per cui il contratto standard è validamente concluso a prescindere dalla ricorrenza di un negoziato (artt. 1341, 1° co., c.c.), riceve ora, riguardo al controllo del “contenuto”, un esplicito richiamo normativo (art. 34, 4° co., c. cons.), assumendo quella valenza giuridica che non possedeva nel modello formativo, ove l’unico dato rilevante è l’obiettiva conoscibilità delle condizioni generali di contratto. Un tale riconoscimento giustifica, nei limiti indicati, un “sistema” di regole e principi che acquistano uno spazio autonomo rispetto alla disciplina generale del contratto, che peraltro contiene al suo interno micro-sistemi normativi concernenti sotto-categorie di contratti. Quanto alle regole di struttura, il contratto di massa non negoziato resta, invece, soggetto al diritto comune, poiché il principio che pone nell’accordo la fonte del vincolo obbligatorio, quello di relatività degli effetti del contratto, o la distinzione tra regole di validità e di correttezza, conservano intatta la propria portata riguardo al contratto come atto. Va precisato, peraltro, che dallo scenario tracciato non deriva alcun elemento di rottura del carattere unitario del diritto dei contratti. Gli artt. 33, ss., c. cons. vengono, infatti, a colmare un vuoto normativo, senza sovrapporsi o interferire con la disciplina generale del contratto, poiché lo spazio operativo dell’una finisce dove inizia quello dell’altra. Nell’un caso oggetto di controllo è un atto di autonomia contrattuale, nell’altro un’attività estranea alla dimensione negoziale del singolo contratto. La prevista possibilità della mancanza di negoziato acquista, in tal senso, un esplicito rilievo normativo, quale spartiacque tra il sistema di controllo dei contratti “individuali” e quello dei contratti (di massa) “non negoziati”. Essa non assume, però, valore fondante di una nuova categoria contrattuale, poiché trova, appunto, spiegazione all’interno della distinzione tra contratti individuali e contratti “di adesione” già presente alla disciplina generale del contratto, ponendosi, nell’ambito della bipartizione tra controlli della libertà contrattuale e controlli della libertà di iniziativa economica, in una posizione corrispondente a quest’ultima. Sul piano dogmatico, la nuova disciplina non pregiudica, perciò, il valore centrale del principio di autonomia contrattuale, poiché si ha riguardo ad una ipotesi tipica (artt. 1341, 1° co., e 34, 4° co., c. cons.) nella quale una delle sue possibili forme espressive, la libertà di determinare il contenuto del contratto, viene di regola a mancare. Deve escludersi, quindi, un vulnus all’interno del diritto dei contratti, poiché se la nuova disciplina speciale sui contratti del consumatore fa emergere, nei limiti precisati, un dato già presente al sistema, tanto basta a revocare in dubbio sia la tesi che prefigura il superamento del principio di libertà contrattuale, sia i quella che presuppone una summa divisio in ragione dello status dei soggetti contraenti.

Abusi nell'attività economica e tecniche di tutela del contraente debole

AZZARO, ANDREA MARIA
2004

Abstract

Per chiarire il ruolo della clausola di buona fede prevista ora dall’art. 33, c. cons., tenuto conto della (diversa) funzione tradizionalmente assegnatale in sede contrattuale, occorre un chiarimento preliminare circa i suoi caratteri costitutivi. L’opinione prevalente postula, si è detto, da un lato la sua natura oggettiva, “nonostante” la contestata formulazione della norma e il mancato inserimento nella traslazione nel codice al consumo dell’inciso “in contrasto”; e, per altro verso, la sua definizione in base al principio del “non significativo squilibrio”, nel profilo contenutistico, e sulla scorta dei criteri di cui all’art. 34, 1° co., c. cons., in quello operativo. In generale può dirsi che si considerano vessatorie le clausole che, secondo una valutazione oggettiva di buona fede, operata alla luce di quei criteri, determinano un significativo squilibrio dei diritti ed obblighi reciproci. Il che sottolinea il carattere elastico del giudizio, che ha nei criteri di obiettività, specificità e complessità i suoi elementi connotativi. Fissati in tal modo i termini essenziali del discorso, si tratta di chiarire se alla clausola in esame debba riconoscersi una configurazione peculiare ed autonoma, o vada piuttosto collocata nella teoria delle altre formulazioni del principio solidaristico contenute nella disciplina generale del contratto. Problema che ha, ovviamente, una rilevanza sistematica, ma assume insieme una valenza pratica, poiché serve a definire le forme del suo concreto operare. In limine, il problema risiede nel fissare il contenuto ed i limiti dell’intervento eteronomo operato mediante la clausola di buona fede, che in tal senso può configurarsi come veicolo di principi e valori esterni al contratto, o essa stessa come principio cardine dell’ordinamento, destinato a “correggere”, in senso etico-sociale, il precetto negoziale. Comunque la s’intenda, la buona fede costituisce uno strumento di (de)limitazione dell’autonomia contrattuale, le cui modalità applicative spetta al giudice “concretizzare”, avendo cura di utilizzare parametri oggettivi, tali da non stravolgere il significato dell’”operazione economica” programmata dai contraenti. Nell’ampio dibattito sul recepimento della direttiva 93/13/CEE si pone in questa prospettiva d’indagine la tesi che attribuisce ad essa una valenza specifica, in rapporto all’ambito di controllo cui è preposta. Partendo dalla constatazione dell’assenza, nella Carta costituzionale, di un fondamento diretto della libertà contrattuale, si osserva che le diverse formulazioni del principio di correttezza che contrassegnano i rapporti obbligatori, specie di fonte contrattuale, non si giovano di “stampelle costituzionali”, ma trovano il proprio fondamento all’interno del sistema codicistico. La clausola generale di buona fede contenuta nell’art. 33, c. cons. costituirebbe, invece, lo strumento affidato dalla legge al giudice per attuare una “ri-regolamentazione” dei mercati di massa, e, come tale, troverebbe un fondamento diretto nella Costituzione, quale limite posto dalla legge alla libertà d’iniziativa economica (art. 41, 2° e 3° co., cost.). Tale ricostruzione presuppone, a ben vedere, che il giudizio di “ragionevolezza” abbia ad oggetto, non già un contegno negoziale, ma un’attività economica estranea alla vicenda contrattuale. Non vi è dubbio, in questo senso, che una certa peculiarità della clausola di buona fede in questione emerga, prima facie, dalla sua stessa definizione. L’art. 33, 1° co., c. cons. ne specifica, tanto l’oggetto (l’insieme di diritti ed obblighi derivanti dal contratto), quanto il criterio di discernimento (il significativo squilibrio), in ciò distinguendosi dalle altre formulazioni contrattuali. A ben vedere, se oggetto del giudizio fosse un comportamento della stessa natura di quello previsto dalle altre regole di correttezza – cioè, l’attività delle parti precedente, coeva o successiva alla conclusione del contratto – non sarebbe stato necessario precisarlo. Né sarebbe stato possibile specificarne il parametro contenutistico, che in quel caso si definisce, di volta in volta, all’interno e nel rispetto della regola privata, in rapporto alle circostanze irripetibili del caso concreto. Notazioni queste da cui, a contrario, si trae un primo argomento a favore del carattere speciale della clausola di buona fede in parola. Ma a sostegno di questa tesi milita un’altra osservazione di carattere generale. La clausola di buona fede serve qui a valutare, non solo la “vessatorietà” delle “clausole non oggetto di trattativa nello specifico contratto”, ma anche l’“abusività” delle “condizioni generali di contratto”. Dal che si deve dedurre, o che essa assume nei due casi una diversa conformazione, ovvero che essa prescinde, nella sua applicazione, dalle circostanze del caso concreto. Si è visto che il procedimento di controllo, proprio perché anche in occasione del giudizio individuale ha ad oggetto un comportamento di natura non negoziale, presenta un carattere generale ed astratto: talché anche ai criteri “soggettivi” – le circostanze esistenti al momento della conclusione del contratto ed il collegamento volontario – deve attribuirsi una connotazione ermeneutica “obiettiva”. La “concretezza” del giudizio viene così ad essere capovolta. Se è vero che nei contratti di massa entrambi i criteri di cui trattasi hanno di regola un contenuto (almeno socialmente) tipico, – derivante dalla standardizzazione delle dinamiche formative – l’interprete, più che ricostruirne la portata nel caso concreto, dovrà piuttosto verificare la ricorrenza di quegli standard comportamentali, traendone le conseguenze sul piano ermeneutico. A favore di questi rilievi depone, poi, un dato normativo inequivocabile: i criteri in esame non entrano nell’oggetto del giudizio di buona fede, ma sono “declassati” a meri criteri di accertamento (art. 34, 1° co., c. cons.). Se ad essi si fosse riconosciuta una valenza “soggettiva”, avrebbero concorso a definire quello che costituisce propriamente l’oggetto del controllo sul contratto “individuale”, ovvero il suo “contenuto” (art. 1322, 1° co., c.c.), quale sintesi di tutti gli atti e comportamenti che compongono l’”operazione economica”. Proprio perché oggetto di giudizio è, invece, lo standard di diritti ed obblighi consacrato nel modello predisposto, si è reso necessario richiamare tali criteri, onde delimitare modalità ed estensione del controllo, distinguendole dal suo oggetto specifico. Sia il criterio di complessità, che quello delle circostanze, hanno qui, dunque, la limitata funzione di fissare l’”ambito operativo” del giudizio di buona fede, che, sul piano contenutistico, assume un rilievo autonomo rispetto alla volontà dei contraenti, distinguendosi in tal modo dalle altre regole di correttezza in materia “contrattuale”. Non è possibile, allora, considerare la buona fede quale minimo comun denominatore tra disciplina generale del contratto ed artt. 33, ss., c. cons., poiché in questo caso essa non attiene alla sfera negoziale, ma è, piuttosto, lo strumento affidato dalla legge al giudice per sanzionare una speciale forma di abuso della libertà di iniziativa economica quale la predisposizione delle condizioni generali di contratto (normative). In questo senso si spiega la necessità di specificarne positivamente, oltre che i criteri applicativi, il parametro contenutistico, dato da un valore, quello di “ragionevolezza”, con tutta evidenza estraneo alla logica negoziale. Si tratta di un principio che trova, dunque, una coerente spiegazione solo assumendo a fondamento normativo del controllo contenutistico gli artt. 2 e 41 cost., il che riconduce la clausola di buona fede in parola nell’area di influenza del principio della correttezza nella concorrenza. Sulla base di questi rilievi, è possibile ora accennare ai profili essenziali che distinguono la clausola di buona fede in questione dalle (altre) formulazioni “contrattuali” del principio solidaristico. Quale “regola di condotta” nella predisposizione del contenuto del contratto, essa si distingue, innanzitutto, dal principio che sovrintende alle trattative precontrattuali, che, come detto, sono strutturalmente assenti nei contratti di massa. Tanto è vero che il legislatore ha previsto per essi speciali regole di informazione, attinenti alla fase che precede (per esempio, pubblicità), è coeva (per esempio, forma scritta) o sopravviene (per esempio, jus poenitendi) alla conclusione del contratto. L’attività precontrattuale viene in tal modo ad essere disseminata di una fitta rete di obblighi formali, entro i quali è praticamente impossibile scorgere un residuo spazio di operatività dell’art. 1337 c.c. Del resto, le particolari esigenze poste dalla contrattazione di massa spiegano il “ritorno al formalismo negoziale” con l’esigenza di tipizzare il procedimento (in)formativo, ed escludono, perciò, l’utilizzabilità, in questo ambito, di rimedi elastici, quale la clausola di buona fede precontrattuale. Ad un diverso momento della vicenda contrattuale fa riferimento la buona fede in executivis (art. 1375 c.c.), che non essendo fonte integrativa del contenuto del contratto, riguarda, non già l’attività determinativa del regolamento di interessi, ma il principio di solidarietà e correttezza nell’esecuzione degli obblighi contrattuali. Quale “regola di valutazione” della “ragionevolezza” dell’attività di predisposizione, la clausola generale di buona fede si distingue, invece, dall’art. 1366 c.c., sia che a tale norma si assegni natura interpretativa, sia anche, e a maggior ragione, ove le si attribuisca una funzione “correttiva” dei risultati raggiunti applicando le altre regole ermeneutiche. Quale criterio ermeneutico generale, tale giudizio a posteriori è incompatibile con il rimedio inibitorio, che ha carattere preventivo e prescinde da uno specifico rapporto. Resterebbe, quale ambito applicativo, l’azione individuale. Ma anche in tal caso l’art. 1366 c.c. non è utilizzabile, e la migliore riprova è data proprio dalle considerazioni espresse in proposito dalla dottrina che ne teorizza la portata generale. Si ritiene infatti che, ove le clausole siano state oggetto di negoziato, o comunque nel caso in cui non ricorrano i presupposti soggettivi di applicabilità, accanto al controllo previsto dagli artt. 33, ss., c. cons. possa aver luogo un giudizio di vessatorietà ex art. 1366 c.c. Ma in tal modo la nuova clausola di buona fede si ridurrebbe, a ben vedere, ad una speciale forma espressiva dell’altra, tanto che potrebbe ritenersi superfluo il richiamo al “non significativo squilibrio”. In realtà, ipotizzando un doppio test di correttezza non si fa che sottolineare il discrimine che esiste tra contratti negoziati e non negoziati: per cui deve escludersi che tra i due rimedi intercorra un rapporto di specialità o di specificità. Vero è, invece, che in un caso la buona fede è criterio “concorrente” e “sussidiario” di interpretazione del precetto negoziale, mentre nell’altro è criterio “obiettivo” ed “esclusivo” di valutazione dell’attività economica di predisposizione. Non ha pregio, dunque, cercare un diverso strumento di tutela per i piccoli e medi imprenditori: il richiamo all’art. 1366 c.c. servirebbe, in questo senso, solo a sminuire la portata della clausola in esame, decretandone, in ultima analisi, la sostanziale irrilevanza. Ad essa deve, al contrario, riconoscersi la funzione di strumento attuativo di quel principio di “ragionevolezza” la cui applicazione consente di individuare, per ciascun contratto di massa, lo standard normativo equilibrato, e con esso la disciplina applicabile. Un’ultima notazione. Potrebbe obiettarsi che uno strumento di controllo così concepito possa costituire un pericolo per la certezza del diritto: argomentazione, questa, tradizionalmente utilizzata dalla giurisprudenza per giustificare il mancato utilizzo delle clausole generali. In proposito, se, in generale, si condivide il rilievo per cui «la certezza del diritto può essere messa in pericolo, non meno che se si applichi una clausola generale, anche quando le norme da applicare siano molte», sembra, comunque, che in tal caso quel rischio si riduca sensibilmente, considerando che la clausola generale si definisce contenutisticamente in base al criterio di “ragionevolezza”, – allontanando così i timori derivanti da una possibile drittwirkung del principio di utilità sociale – e si specifica, sul piano applicativo, in virtù dei criteri di accertamento. Assai diffusa nel dibattito in materia è l’idea che l’avvento della disciplina dei contratti del consumatore segni il definitivo tramonto della categoria generale del contratto. Questa idea prende corpo in due principali filoni argomentativi, il cui esame costituisce la premessa necessaria a verificare il mutamento di singole parti del sistema. Per comodità espositiva essi saranno analizzati in modo distinto, ancorché risultino, sotto vari aspetti, strettamente correlati. Secondo un primo indirizzo, la nuova disciplina porterebbe a compimento, sul piano sistematico, un fenomeno normativo da tempo in atto, fondato sullo status del consumatore, determinando una bipartizione tra contratti commerciali e contratti del consumatore, e, quindi, la rottura dell’unità del diritto dei contratti, basato sul principio di uguaglianza formale dei contraenti. L’indagine sin qui svolta conduce, invece, in una diversa direzione, nella quale la nozione di “consumatore” non rileva, sul piano giuridico, in ragione della sua dimensione soggettiva, bensì per le modalità oggettive di conclusione del contratto. L’orientamento che si critica si traduce, sul piano sistematico, in una “divisione dei compiti” tra gli artt. 1341, 1342 e 1370 c.c., da una parte, e gli artt. 33, ss., c. cons., dall’altra. L’area di influenza dei primi comprenderebbe: a) i contratti tra imprenditori; b) i contratti tra consumatori; c) i contratti tra impresa e persona giuridica; d) gli acquisti a uso promiscuo; e) gli acquisti “congiunti”; sarebbero invece soggetti ai secondi i contratti in cui controparte dell’impresa predisponente sia una persona fisica, che acquisti il bene o usufruisca del servizio per scopi di consumo personale. Ma ciò significa, in sostanza, negare all’aderente ogni protezione, se è vero che, mentre delle regole interpretative (artt. 1342, 1° co. e 1370 c.c.) si è ampiamente sperimentata la sostanziale inefficienza, gli artt. 1341 e 1342, 2° co., c.c. hanno la diversa funzione di consentire l’efficacia delle condizioni generali di contratto. Notazione, questa, che rappresenta, evidentemente, una obiezione di carattere generale alla postulata distinzione tra i regimi protettivi. Lungo la linea indicata, pare ugualmente opinabile la principale conseguenza che si fa derivare dalla asserita bipartizione tra contratti commerciali e contratti del consumatore: il superamento del principio di uguaglianza formale. Il fatto che, nell’ambito della disciplina generale del contratto, è previsto che il micro-sistema normativo dei contratti standard sia caratterizzato dalla possibile mancanza di trattative individuali, suggerisce una diversa lettura del problema. Nei contratti per adesione il rapporto tra le parti non è fondato, come per il contratto individuale, sull’uguaglianza formale dei contraenti, semplicemente perché, mancando un negoziato, viene meno lo stesso presupposto che giustifica la vigenza di quel principio. Si può dire, anzi, che utilizzatore e aderente sono sì “uguali”, ma nel senso di non poter apportare alcuna modifica al modulo predisposto. Non è dunque, che nei contratti di massa può non esservi uguaglianza formale dei contraenti perché, in ragione del diverso status, esiste “una diseguaglianza sostanziale tra le parti”, ma per il fatto che essi, per loro natura, non possono che essere non negoziati. Si tratta di una circostanza indotta, non da un dato strutturale qualificativo di una categoria contrattuale, ma dalla posizione di supremazia del “predisponente”, quale condizione immanente al mercato, precedente ed esterna alla dimensione “negoziale” del rapporto contrattuale. Tanto è vero che il principio di uguaglianza formale resta in via di principio vigente, nella prevista (ancorché remota) possibilità che nei contratti standard si attui un negoziato, senza, perciò, che, sul piano sistematico, all’opposta evenienza possa attribuirsi una valenza derogatoria. Quanto precede si riferisce alla componente normativa del contratto. Riguardo alle condizioni economiche, va detto invece che, nel momento in cui effettua la “scelta” tra le offerte concorrenti, il consumatore pare essere in posizione di uguaglianza formale rispetto all’altro “contraente”. Né quel rapporto può dirsi alterato dall’eventuale mancanza di trasparenza dell’offerta economica, poiché il fatto che la scelta sia priva in quel caso della necessaria consapevolezza informativa, dipende da una condizione esterna alla vicenda contrattuale. Pare, dunque, lecito affermare che il principio di uguaglianza formale mantiene intatta la propria valenza riguardo a(lla componente “individuale” de)i contratti di massa, poiché ove le condizioni generali siano non negoziate, non ricorrono i presupposti che ne giustificano la vigenza. Parallelamente all’orientamento “soggettivo”, è diffusa altresì la convinzione che la nuova disciplina comporti una deroga generalizzata al principio di libertà contrattuale. Si sarebbe aperta una breccia nel sistema, per cui la sfera negoziale diverrebbe oggetto di un intervento esterno, avulso dal potere determinativo delle parti contraenti. Ma pare evidente come dell’intervento autoritativo del giudice non possa parlarsi come di una limitazione generalizzata del potere autoregolamentare, proprio perché esso ha luogo nell’ipotesi, prevista dallo stesso ordinamento, che il contenuto del contratto standard sia non negoziato. Il fatto che il regolamento normativo dei contratti di massa sia, per sua natura, non negoziabile, spiega perché, anche nelle leggi speciali di derivazione comunitaria, contrariamente a quanto avviene comunemente la componente normativa del contratto è determinata autoritativamente, e non quale ius dispositivum. Si potrebbe obiettare che nella legislazione speciale sono evidenti una serie di limitazioni della libertà contrattuale. A ben vedere, si tratta però di norme settoriali, il cui fondamento va cercato nell’ambito dei limiti posti dalla legge al libero dispiegarsi dell’autonomia privata, in virtù di un preminente interesse pubblico. Esse concernono, infatti, la forma ed il contenuto astratto minimo delle “condizioni economiche”, da un lato, e la “volontà come fonte del vincolo obbligatorio”, dall’altro, e cioè quei profili dell’autonomia contrattuale che costituiscono il “nucleo individuale” dei contratti di massa. Nel nuovo regime protettivo si verifica, in vero, uno spostamento dell’ottica di tutela, dalla sfera “interna” all’atto di autonomia privata, a una dimensione “esterna” ad esso, la disciplina giuridica del mercato, che non determina alcuna frattura all’interno del diritto dei contratti, poiché è lo stesso ordinamento che contempla (artt. 1341, 1° co. e 1342, 1° co., c.c.), ed ora attribuisce rilievo normativo (artt. 33, ss., c. cons.), alla “possibilità” che nei contratti standard il contenuto contrattuale sia riferibile all’attività economica di predisposizione, ove, in assenza di trattative, esso non transiti sul piano “negoziale”. La nuova disciplina va in tal modo a congiungersi (art. 1323 c.c.), distinguendosene, ad un sistema nel quale – ancorché entro i limiti di rilevanza pratica progressivamente ridotti che derivano dalle numerose limitazioni tipiche che concernono le sue diverse espressioni – mantiene valenza generale il principio di autonomia negoziale, inteso nella sua piena espressività, comprensiva, quindi, anche del profilo indicato dall’art. 1322, 1° co., c.c.. Conclusivamente può dirsi che gli artt. 33 ss. c. cons. rappresentano un sistema di regole di controllo dell’attività economica di predisposizione, che si congiunge organicamente con la disciplina di formazione del contratto standard. A tale conclusione non è di ostacolo, si è visto, il diverso ambito oggettivo dei due gruppi normativi, posto che il loro comune fondamento sistematico è dato dalla prevista possibilità dell’assenza di negoziato, che nell’art. 1341, 1° co., c.c. poggia sul concetto di conoscibilità, secondo un meccanismo chiaramente diretto a favorire le imprese. A fronte di un modello formativo nel quale, sul fondamento del principio di autoresponsabilità della parte aderente, si “accantona” il giudizio di merito sulle clausole non negoziate, il sistema previgente si limitava a predisporre talune cautele formali, poiché, per il resto, l’intera impalcatura di controlli presente nel codice civile ha riguardo al contratto “individuale”. In questa fessura all’interno dell’ordinamento si inserisce ora la normativa “orizzontale” dei contratti del consumatore, quale disciplina di contenuti di quella parte, preponderante, dei contratti standard, la cui regolamentazione è funzionale alla integrazione dei mercati. Giova ricordare, in tal senso, che le ragioni che stanno alla base dell’introduzione della disciplina a tutela del consumatore fanno capo alle politiche promosse della Comunità europea in vista della creazione del mercato unico. A questa circostanza si collega il problema di individuare, nell’ordinamento interno, il fondamento normativo del nuovo regime protettivo, che, data la natura dell’attività oggetto di controllo, si è identificato negli artt. 2 e 41 cost. Nella prospettiva di chi attribuisce alla “Costituzione economica” una valenza “non definita”, che si determina in ragione delle preminenti istanze solidaristiche (art. 3, 2° co., cost.), il problema della compatibilità dell’art. 41 cost. con il “fattore” comunitario si risolve mediante la “rilettura” della norma nel senso del primato del mercato, adottandola a raccordo sistematico dei principi e delle regole di fonte comunitaria, preposti alla ri-regolamentazione dei mercati di massa. Ma se tali sono le ragioni politiche ed il fondamento normativo del nuovo sistema di controllo, è evidente come esso affondi le proprie radici giustificative in quegli aspetti caratterizzanti il fenomeno, che sin dalle sue origini sono stati consapevolmente individuati dalla dottrina. Il principio per cui il contratto standard è validamente concluso a prescindere dalla ricorrenza di un negoziato (artt. 1341, 1° co., c.c.), riceve ora, riguardo al controllo del “contenuto”, un esplicito richiamo normativo (art. 34, 4° co., c. cons.), assumendo quella valenza giuridica che non possedeva nel modello formativo, ove l’unico dato rilevante è l’obiettiva conoscibilità delle condizioni generali di contratto. Un tale riconoscimento giustifica, nei limiti indicati, un “sistema” di regole e principi che acquistano uno spazio autonomo rispetto alla disciplina generale del contratto, che peraltro contiene al suo interno micro-sistemi normativi concernenti sotto-categorie di contratti. Quanto alle regole di struttura, il contratto di massa non negoziato resta, invece, soggetto al diritto comune, poiché il principio che pone nell’accordo la fonte del vincolo obbligatorio, quello di relatività degli effetti del contratto, o la distinzione tra regole di validità e di correttezza, conservano intatta la propria portata riguardo al contratto come atto. Va precisato, peraltro, che dallo scenario tracciato non deriva alcun elemento di rottura del carattere unitario del diritto dei contratti. Gli artt. 33, ss., c. cons. vengono, infatti, a colmare un vuoto normativo, senza sovrapporsi o interferire con la disciplina generale del contratto, poiché lo spazio operativo dell’una finisce dove inizia quello dell’altra. Nell’un caso oggetto di controllo è un atto di autonomia contrattuale, nell’altro un’attività estranea alla dimensione negoziale del singolo contratto. La prevista possibilità della mancanza di negoziato acquista, in tal senso, un esplicito rilievo normativo, quale spartiacque tra il sistema di controllo dei contratti “individuali” e quello dei contratti (di massa) “non negoziati”. Essa non assume, però, valore fondante di una nuova categoria contrattuale, poiché trova, appunto, spiegazione all’interno della distinzione tra contratti individuali e contratti “di adesione” già presente alla disciplina generale del contratto, ponendosi, nell’ambito della bipartizione tra controlli della libertà contrattuale e controlli della libertà di iniziativa economica, in una posizione corrispondente a quest’ultima. Sul piano dogmatico, la nuova disciplina non pregiudica, perciò, il valore centrale del principio di autonomia contrattuale, poiché si ha riguardo ad una ipotesi tipica (artt. 1341, 1° co., e 34, 4° co., c. cons.) nella quale una delle sue possibili forme espressive, la libertà di determinare il contenuto del contratto, viene di regola a mancare. Deve escludersi, quindi, un vulnus all’interno del diritto dei contratti, poiché se la nuova disciplina speciale sui contratti del consumatore fa emergere, nei limiti precisati, un dato già presente al sistema, tanto basta a revocare in dubbio sia la tesi che prefigura il superamento del principio di libertà contrattuale, sia i quella che presuppone una summa divisio in ragione dello status dei soggetti contraenti.
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