Il Mediterraneo (le aree costiere, le innumerevoli isole, il mare stesso in quanto da millenni attraversato da flussi mercantili e migratori e canale di intensissima comunicazione interculturale) costituisce un vero e proprio continente a sé stante, ben diverso dai tre continenti “ufficiali” (costruzioni artificialissime e prive di reale significato) tra cui sarebbe diviso. Nonostante le pur importanti differenze interne, si tratta, da sempre, di un’area sostanzialmente omogenea, come ben risulta se si confrontano l’Europa, l’Africa, l’Asia mediterranea con le aree più interne e remote di questi continenti. È del tutto evidente, ad esempio, che l’Europa mediterranea (tutta) assomiglia assai di più ai propri dirimpettai africani che non alle popolazioni della Mitteleuropa, così come le civiltà africane mediterranee (anche quelle preislamiche) hanno ben più in comune con le popolazioni europee costiere che non con quelle dell’Africa subsahariana. Certo, non si può coltivare un’immagine edulcorata ed irenica di queste affinità: il Mediterraneo è stato spessissimo, anzi è stato sostanzialmente sempre, un fronte di lotta. Però non è mai stato un confine, ed anzi proprio la continuità del conflitto ha contribuito in maniera determinante, nel protrarsi millenario di invasioni e contro invasioni da una sponda all’altra, a realizzare la sostanziale omogeneità e la peculiare identità storica di quest’area. A furia di versare sangue, il sangue si mescola, come si mescolano le lingue, i costumi, le religioni (sempre e inevitabilmente mescolate tra loro anche e forse soprattutto quando più si illudono di avere una purezza ed una verità esclusive da rivendicare). I flussi commerciali fanno il resto, e il conflitto non li arresta mai, anzi li alimenta, e non di rado i nemici più accaniti, tra un massacro e l’altro e a volte anche durante i massacri, fanno ottimi affari insieme. Si pensi, ad esempio, al rapporto plurisecolare tra Venezia e l’Impero ottomano, in guerra quasi continua, ma, anche durante le guerre, ottimi partner commerciali, tanto che proprio mentre sgretolava a poco a poco il dominio politico della Serenissima l’Impero ottomano ne teneva in piedi l’economia, ritardandone la decadenza mercantile proprio mentre ne accelerava quella politica. L’unico tentativo storicamente riscontrabile, e quindi assai significativo pur nella sua evidente (e purtroppo tragica) futilità, di fare del Mediterraneo un confine, risale proprio a questi ultimi anni, in riferimento al fenomeno migratorio. In realtà è ben noto che i flussi di disperati che attraversano il mare (lasciandovi una quantità di vite che nessuno ha interesse a contare, ma è di sicuro pari a quella delle vittime di una guerra) non sono affatto i flussi migratori più importanti, ma sono quelli che più fanno notizia, ed anche quelli che più danno la falsa impressione di una “efficacia” del contenimento. L’immagine assurda di una “fortezza Europa” che deve difendersi dall’invasione di nuovi barbari è di per sé la dimostrazione icastica e definitiva di un declino europeo che, prima che politico ed economico, è proprio simbolico-identitario. Oggi l’Europa si rappresenta a se stessa con un’immagine di debolezza violata che molto ricorda la decadenza dell’impero romano, quando il limes non teneva più. E non si rifletterà mai abbastanza sul paradosso autodistruttivo insito in questo sforzo di trasformare quello che è sempre stato uno spazio di comunicazione attraversato da preziosi flussi vitali in un limes che, come sempre è accaduto, non può far altro che crollare, anzi in questo caso è addirittura impossibile da costruire. Significativo è il ruolo che in questo sforzo disperato di aggrapparsi alla propria decadenza come alla propria più cara peculiarità abbiamo cercato di imporre ai governi nostri dirimpettai del Maghreb: quello di fungere da tappo. Una sorta di antemurale del limes, per bloccare i barbari ancora prima e farne morire la maggior parte abbastanza lontano da noi da non doverci accorgere di queste morti. Il rapporto Italia-Libia dell’ultimo decennio è tutto qui. Ma più in generale, a questi governi abbiamo cercato di assegnare un ruolo di tappo anche e soprattutto nei confronti dei loro stessi popoli e dei loro sforzi (molto più antichi e radicati, spesso, di quanto ci fa comodo credere) di trovare una propria dignitosa e libera via di ingresso nella “modernità”. Si trattava di difendere i nostri approvvigionamenti di petrolio, senza dubbio, ma anche, e forse persino di più, di tutelare l’alibi della nostra superiorità: quella pretesa di superiorità che in qualche modo ci fa sentire autorizzati a sbarrare le porte della “fortezza Europa”. Abbiamo avuto bisogno, ne avremmo ancora bisogno se dipendesse da noi, di poterci dire che gli Arabi sono ineluttabilmente arretrati, pronti a cadere nel fanatismo religioso non appena governi necessariamente dittatoriali dovessero allentare la presa. Se no, come facciamo a dirci che siamo assediati? Si pensi all’importanza essenziale che nella politica seguita in questi anni da tutto l’Occidente ha avuto la rappresentazione di Israele come “unica democrazia del Medio Oriente”, come tale impossibilitata e perciò dispensata dal fare davvero la pace con i propri vicini. Si pensi allo scempio indecente che nel nostro immaginario abbiamo fatto pervicacemente (e ancora continuiamo a fare) di una grande religione universale come l’Islam, matrice di una delle più alte civiltà della storia mondiale, di cui abbiamo accettato di vedere soltanto le manifestazioni più folli e superstiziose (come se cristianesimo o ebraismo non ne conoscessero di simili se non peggiori), permettendoci il lusso di ignorare i fermenti intellettuali e spirituali che intanto attraversavano questa vasta parte dell’umanità. Ed ecco che improvvisamente è successo quello che non doveva succedere: questi popoli di pazzi fanatici nostalgici del Medioevo scendono in piazza contro i loro governi, mobilitandosi non nelle moschee ma su Internet. E non vogliano la sharia, ma la democrazia (ed anche quando vogliono la sharia, la vogliono nella democrazia, ed anche quando sono islamici militanti vogliono essere di questo tempo e non del medioevo). Come si permettono di non essere come a noi fa comodo che siano? Perché ci smontano le nostre belle costruzioni ideologiche neocoloniali e neorazziste? Come si permettono, i barbari, di essere più civili, più liberi, più forti di noi? Cosa è meglio oggi, appartenere a questa Italietta senz’anima e senza futuro, o respirare il vento della rivoluzione egiziana? Da che parte batte, oggi, il cuore della “modernità”? Non è certo un caso che, con evidenza assoluta e impegno degno di miglior causa, stiamo cercando di convincerci che non funziona, non può funzionare. Vincerà la controrivoluzione, o anzi la rivoluzione è già controrivoluzione, come sembra pensare il mio amico Lucio Caracciolo. E se vincesse la rivoluzione, sarebbe per forza “islamica”, e quindi per definizione retriva, illiberale, antimoderna. Ma se l’Islam fosse questo, come sarebbe potuto succedere quel che è successo? Se ci fosse quell’incompatibilità di fondo tra Islam e democrazia di cui abbiamo cianciato per decenni, ci sarebbe stata piazza Tahrir? Non sarà forse il caso di decidersi una buona volta a “scoprire” cos’è l’Islam, e ad accorgerci, con qualche secolo di ritardo, che, senza volerlo mitizzare, è, a differenza di altre, una religione senza gerarchie e senza monopolio della verità? Una religione costitutivamente pluralistica? Una religione in cui esistono quattro “ortodossie” diverse, che sono tutte ugualmente legittime? Una religione per cui, da sempre, tutti gli uomini sono uguali agli occhi di Allah, e le gerarchie sociali non sono mai sacralizzate, e nessuna autorità è voluta da Dio? Il caso libico potrebbe essere in proposito l’inizio di una svolta. Non certo per ragioni nobili, qui siamo riusciti a fare una scelta (non l’Italia, che come al solito non ha scelto affatto, è stata semplicemente trascinata): quella di fare i tutori della rivoluzione. In quel che accaduto, ci sono state molte cose discutibili ed anche parecchio sporche, certamente. Però ci siamo assunti comunque un ruolo determinante, in netta controtendenza rispetto a una politica ultradecennale. Non credo che lo abbiamo fatto per saggezza, ma è stata una scelta saggia. Ora cerchiamo di guardarci dallo “sperare” in una bella guerra tribale che possa farci ritornare ai vecchi comodi pregiudizi e legittimare nuovamente le nostre chiusure politico-identitarie. Magari succederà proprio così: ma non sarebbe tanto una sconfitta del mondo arabo o del mondo islamico, ma l’ennesima, forse finale, sconfitta dell’Europa.

Pluriverso mediterraneo e rivoluzioni arabe

ALFIERI, LUIGI
2012

Abstract

Il Mediterraneo (le aree costiere, le innumerevoli isole, il mare stesso in quanto da millenni attraversato da flussi mercantili e migratori e canale di intensissima comunicazione interculturale) costituisce un vero e proprio continente a sé stante, ben diverso dai tre continenti “ufficiali” (costruzioni artificialissime e prive di reale significato) tra cui sarebbe diviso. Nonostante le pur importanti differenze interne, si tratta, da sempre, di un’area sostanzialmente omogenea, come ben risulta se si confrontano l’Europa, l’Africa, l’Asia mediterranea con le aree più interne e remote di questi continenti. È del tutto evidente, ad esempio, che l’Europa mediterranea (tutta) assomiglia assai di più ai propri dirimpettai africani che non alle popolazioni della Mitteleuropa, così come le civiltà africane mediterranee (anche quelle preislamiche) hanno ben più in comune con le popolazioni europee costiere che non con quelle dell’Africa subsahariana. Certo, non si può coltivare un’immagine edulcorata ed irenica di queste affinità: il Mediterraneo è stato spessissimo, anzi è stato sostanzialmente sempre, un fronte di lotta. Però non è mai stato un confine, ed anzi proprio la continuità del conflitto ha contribuito in maniera determinante, nel protrarsi millenario di invasioni e contro invasioni da una sponda all’altra, a realizzare la sostanziale omogeneità e la peculiare identità storica di quest’area. A furia di versare sangue, il sangue si mescola, come si mescolano le lingue, i costumi, le religioni (sempre e inevitabilmente mescolate tra loro anche e forse soprattutto quando più si illudono di avere una purezza ed una verità esclusive da rivendicare). I flussi commerciali fanno il resto, e il conflitto non li arresta mai, anzi li alimenta, e non di rado i nemici più accaniti, tra un massacro e l’altro e a volte anche durante i massacri, fanno ottimi affari insieme. Si pensi, ad esempio, al rapporto plurisecolare tra Venezia e l’Impero ottomano, in guerra quasi continua, ma, anche durante le guerre, ottimi partner commerciali, tanto che proprio mentre sgretolava a poco a poco il dominio politico della Serenissima l’Impero ottomano ne teneva in piedi l’economia, ritardandone la decadenza mercantile proprio mentre ne accelerava quella politica. L’unico tentativo storicamente riscontrabile, e quindi assai significativo pur nella sua evidente (e purtroppo tragica) futilità, di fare del Mediterraneo un confine, risale proprio a questi ultimi anni, in riferimento al fenomeno migratorio. In realtà è ben noto che i flussi di disperati che attraversano il mare (lasciandovi una quantità di vite che nessuno ha interesse a contare, ma è di sicuro pari a quella delle vittime di una guerra) non sono affatto i flussi migratori più importanti, ma sono quelli che più fanno notizia, ed anche quelli che più danno la falsa impressione di una “efficacia” del contenimento. L’immagine assurda di una “fortezza Europa” che deve difendersi dall’invasione di nuovi barbari è di per sé la dimostrazione icastica e definitiva di un declino europeo che, prima che politico ed economico, è proprio simbolico-identitario. Oggi l’Europa si rappresenta a se stessa con un’immagine di debolezza violata che molto ricorda la decadenza dell’impero romano, quando il limes non teneva più. E non si rifletterà mai abbastanza sul paradosso autodistruttivo insito in questo sforzo di trasformare quello che è sempre stato uno spazio di comunicazione attraversato da preziosi flussi vitali in un limes che, come sempre è accaduto, non può far altro che crollare, anzi in questo caso è addirittura impossibile da costruire. Significativo è il ruolo che in questo sforzo disperato di aggrapparsi alla propria decadenza come alla propria più cara peculiarità abbiamo cercato di imporre ai governi nostri dirimpettai del Maghreb: quello di fungere da tappo. Una sorta di antemurale del limes, per bloccare i barbari ancora prima e farne morire la maggior parte abbastanza lontano da noi da non doverci accorgere di queste morti. Il rapporto Italia-Libia dell’ultimo decennio è tutto qui. Ma più in generale, a questi governi abbiamo cercato di assegnare un ruolo di tappo anche e soprattutto nei confronti dei loro stessi popoli e dei loro sforzi (molto più antichi e radicati, spesso, di quanto ci fa comodo credere) di trovare una propria dignitosa e libera via di ingresso nella “modernità”. Si trattava di difendere i nostri approvvigionamenti di petrolio, senza dubbio, ma anche, e forse persino di più, di tutelare l’alibi della nostra superiorità: quella pretesa di superiorità che in qualche modo ci fa sentire autorizzati a sbarrare le porte della “fortezza Europa”. Abbiamo avuto bisogno, ne avremmo ancora bisogno se dipendesse da noi, di poterci dire che gli Arabi sono ineluttabilmente arretrati, pronti a cadere nel fanatismo religioso non appena governi necessariamente dittatoriali dovessero allentare la presa. Se no, come facciamo a dirci che siamo assediati? Si pensi all’importanza essenziale che nella politica seguita in questi anni da tutto l’Occidente ha avuto la rappresentazione di Israele come “unica democrazia del Medio Oriente”, come tale impossibilitata e perciò dispensata dal fare davvero la pace con i propri vicini. Si pensi allo scempio indecente che nel nostro immaginario abbiamo fatto pervicacemente (e ancora continuiamo a fare) di una grande religione universale come l’Islam, matrice di una delle più alte civiltà della storia mondiale, di cui abbiamo accettato di vedere soltanto le manifestazioni più folli e superstiziose (come se cristianesimo o ebraismo non ne conoscessero di simili se non peggiori), permettendoci il lusso di ignorare i fermenti intellettuali e spirituali che intanto attraversavano questa vasta parte dell’umanità. Ed ecco che improvvisamente è successo quello che non doveva succedere: questi popoli di pazzi fanatici nostalgici del Medioevo scendono in piazza contro i loro governi, mobilitandosi non nelle moschee ma su Internet. E non vogliano la sharia, ma la democrazia (ed anche quando vogliono la sharia, la vogliono nella democrazia, ed anche quando sono islamici militanti vogliono essere di questo tempo e non del medioevo). Come si permettono di non essere come a noi fa comodo che siano? Perché ci smontano le nostre belle costruzioni ideologiche neocoloniali e neorazziste? Come si permettono, i barbari, di essere più civili, più liberi, più forti di noi? Cosa è meglio oggi, appartenere a questa Italietta senz’anima e senza futuro, o respirare il vento della rivoluzione egiziana? Da che parte batte, oggi, il cuore della “modernità”? Non è certo un caso che, con evidenza assoluta e impegno degno di miglior causa, stiamo cercando di convincerci che non funziona, non può funzionare. Vincerà la controrivoluzione, o anzi la rivoluzione è già controrivoluzione, come sembra pensare il mio amico Lucio Caracciolo. E se vincesse la rivoluzione, sarebbe per forza “islamica”, e quindi per definizione retriva, illiberale, antimoderna. Ma se l’Islam fosse questo, come sarebbe potuto succedere quel che è successo? Se ci fosse quell’incompatibilità di fondo tra Islam e democrazia di cui abbiamo cianciato per decenni, ci sarebbe stata piazza Tahrir? Non sarà forse il caso di decidersi una buona volta a “scoprire” cos’è l’Islam, e ad accorgerci, con qualche secolo di ritardo, che, senza volerlo mitizzare, è, a differenza di altre, una religione senza gerarchie e senza monopolio della verità? Una religione costitutivamente pluralistica? Una religione in cui esistono quattro “ortodossie” diverse, che sono tutte ugualmente legittime? Una religione per cui, da sempre, tutti gli uomini sono uguali agli occhi di Allah, e le gerarchie sociali non sono mai sacralizzate, e nessuna autorità è voluta da Dio? Il caso libico potrebbe essere in proposito l’inizio di una svolta. Non certo per ragioni nobili, qui siamo riusciti a fare una scelta (non l’Italia, che come al solito non ha scelto affatto, è stata semplicemente trascinata): quella di fare i tutori della rivoluzione. In quel che accaduto, ci sono state molte cose discutibili ed anche parecchio sporche, certamente. Però ci siamo assunti comunque un ruolo determinante, in netta controtendenza rispetto a una politica ultradecennale. Non credo che lo abbiamo fatto per saggezza, ma è stata una scelta saggia. Ora cerchiamo di guardarci dallo “sperare” in una bella guerra tribale che possa farci ritornare ai vecchi comodi pregiudizi e legittimare nuovamente le nostre chiusure politico-identitarie. Magari succederà proprio così: ma non sarebbe tanto una sconfitta del mondo arabo o del mondo islamico, ma l’ennesima, forse finale, sconfitta dell’Europa.
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