Prendendo spunto da un riferimento alle Conversazioni con Eckermann di Goethe, si affronta il nesso tra leggenda, racconto e storia in Gramsci. Nella lettera al fratello Carlo del 28 settembre 1931, Antonio ricorda che è errato iniziare il racconto della storia di Roma «da quando esistono documenti» e tacere invece «sui primi secoli detti “leggendari”». E aggiunge la seguente osservazione: «La storiografia più moderna non è così rigorosa e bigotta a proposito dei documenti materiali: del resto già Goethe aveva scritto che bisognava insegnare tutta la storia di Roma, anche la leggendaria, perché gli uomini che avevano inventato quelle leggende erano degni di essere conosciuti anche nelle leggende inventate. Ma la verità è che molte leggende si sono dimostrate, più modernamente, non essere affatto leggende o avere almeno un certo nucleo di verità, per le nuove scoperte archeologiche o per i ritrovamenti di documenti epigrafici ecc.». Il ricorso a Goethe è incastonato – a ben vedere – dentro un riferimento implicito alla Teoria e storia della storiografia di Benedetto Croce, in particolare al capitolo su Le pseudostorie, in cui il filosofo abruzzese compie un «giro dialettico» tra diverse forme di storie false, tra queste la «filologica» e la «poetica», criticandone l’unilaterale pretesa di essere “tutta” la storia. La vera fonte della storia, afferma Croce, è l’unità di vita e pensiero, di documento e critica, unità sintetica, speculativa, di parti che sono interne alla storia stessa e non a essa precedenti. In questo senso, per un verso la storia è sempre sconosciuta: non solamente quella precedente l’esistenza di documenti, ma anche quella presente; e per altro lato non vi è storia veramente “sconosciuta”, se la sintesi speculativa avviene e la storia diventa «contemporanea». Col riferimento a Goethe, Gramsci apre un percorso che va in tutt’altra direzione, e che influenza immediatamente il ricorso al libro di Croce. La storiografia non deve concepire il documento in termini pedanti, e pertanto – come Croce afferma – «la fantasia è indispensabile allo storico». Ma per Gramsci la fantasia è qualcosa di immediatamente legato alla vita: è la forma di “pensare” delle masse, costrette e schiacciate in un ruolo subalterno. Quel «certo nucleo di verità» delle «leggende» è pertanto il modo in cui, in una relazione reciproca tra classi dominanti e classi subalterne (relazione aperta, “politica”, ma sempre connotata da un forte squilibrio di potere), la “storia” di un popolo è stata immaginata nella costruzione di un racconto nel quale entrambe le parti potessero riconoscersi. L’immediata aderenza del racconto leggendario alla mentalità collettiva rende possibile giustificare l’osservazione di Goethe ed estenderla a uno studio della fiaba come fonte indiretta del modo di vedere e concepire sé stessi da parte degli strati più marginali dei gruppi sociali subalterni.

«Un certo nucleo di verità»: note su leggenda, racconto, storia e documento in Gramsci

Fabio Frosini
2019

Abstract

Prendendo spunto da un riferimento alle Conversazioni con Eckermann di Goethe, si affronta il nesso tra leggenda, racconto e storia in Gramsci. Nella lettera al fratello Carlo del 28 settembre 1931, Antonio ricorda che è errato iniziare il racconto della storia di Roma «da quando esistono documenti» e tacere invece «sui primi secoli detti “leggendari”». E aggiunge la seguente osservazione: «La storiografia più moderna non è così rigorosa e bigotta a proposito dei documenti materiali: del resto già Goethe aveva scritto che bisognava insegnare tutta la storia di Roma, anche la leggendaria, perché gli uomini che avevano inventato quelle leggende erano degni di essere conosciuti anche nelle leggende inventate. Ma la verità è che molte leggende si sono dimostrate, più modernamente, non essere affatto leggende o avere almeno un certo nucleo di verità, per le nuove scoperte archeologiche o per i ritrovamenti di documenti epigrafici ecc.». Il ricorso a Goethe è incastonato – a ben vedere – dentro un riferimento implicito alla Teoria e storia della storiografia di Benedetto Croce, in particolare al capitolo su Le pseudostorie, in cui il filosofo abruzzese compie un «giro dialettico» tra diverse forme di storie false, tra queste la «filologica» e la «poetica», criticandone l’unilaterale pretesa di essere “tutta” la storia. La vera fonte della storia, afferma Croce, è l’unità di vita e pensiero, di documento e critica, unità sintetica, speculativa, di parti che sono interne alla storia stessa e non a essa precedenti. In questo senso, per un verso la storia è sempre sconosciuta: non solamente quella precedente l’esistenza di documenti, ma anche quella presente; e per altro lato non vi è storia veramente “sconosciuta”, se la sintesi speculativa avviene e la storia diventa «contemporanea». Col riferimento a Goethe, Gramsci apre un percorso che va in tutt’altra direzione, e che influenza immediatamente il ricorso al libro di Croce. La storiografia non deve concepire il documento in termini pedanti, e pertanto – come Croce afferma – «la fantasia è indispensabile allo storico». Ma per Gramsci la fantasia è qualcosa di immediatamente legato alla vita: è la forma di “pensare” delle masse, costrette e schiacciate in un ruolo subalterno. Quel «certo nucleo di verità» delle «leggende» è pertanto il modo in cui, in una relazione reciproca tra classi dominanti e classi subalterne (relazione aperta, “politica”, ma sempre connotata da un forte squilibrio di potere), la “storia” di un popolo è stata immaginata nella costruzione di un racconto nel quale entrambe le parti potessero riconoscersi. L’immediata aderenza del racconto leggendario alla mentalità collettiva rende possibile giustificare l’osservazione di Goethe ed estenderla a uno studio della fiaba come fonte indiretta del modo di vedere e concepire sé stessi da parte degli strati più marginali dei gruppi sociali subalterni.
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11576/2670483
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