Il libro raccoglie dei saggi di diversi autori, ma sviluppa un’idea comune. C’è la tragedia sotto la storia. Gli oggetti su cui esso riflette istituiscono l’essere della loro relazione. La guerra, il terrore, l’attentato e il sequestro di Aldo Moro, la peste, rinviano ad un solo evento fondamentale. Che è lontano da passare il tempo in cui l’uomo fu lupo all’altro uomo. Ma se la violenza è il modo in cui l’umanità si racconta la sua storia, la filosofia non può che apprendere ancora il proprio tempo con il pensiero. Dove la verità muore all’intenzione. Sulla soglia del testo i giochi dell’immaginazione con il simbolo. Nelle sue stanze regali gli occhi della Medusa di Caravaggio si riguardano nello specchio del Leviatano di Hobbes. Due maschere del potere che dissimulano, oserei dire dipingono, il vuoto della rappresentazione. Vedrai la filosofia inseguire la lotta di prestigio per il riconoscimento, ma anche aprire una prospettiva critica, separante e decisiva, sui suoi dati temporali. Pensare che è possibile pensare senza dover escludere. Non di meno, ancora lacrime e stridore di denti nella seconda parte del libro. Nel mezzo dei carnai e degli odi soffocanti, dove la guerra è fatta per niente, sarà Simone Weil ad aprire un varco improvviso di bellezza. Il campo in cui il potere e il sapere si implicano direttamente è assediato dai nomi. Nulla possono la ragion di stato e il potere pastorale. A Foucault non resta che arrendersi dopo tanto sorvegliare e punire. Ma ciò che le parole dicono non è quel che il nome ha chiamato. L’ordine del discorso non distingue più tra amico e nemico. Le parole adorne di maiuscole hanno smarrito il contenuto e il senso. Si mescolano al sangue versato. L’affaire Moro è una storia sbagliata di palazzo e “prigione del popolo”, dove tutti parlano ma nessuno può dire la verità. Colui che appariva il meno implicato di tutti nelle cose orribili organizzate in Italia nel tentativo di conservare il potere, come aveva scritto Pier Paolo Pasolini, l’uomo che credeva di essere la guida di un’altra politica, è destinato per l’appunto a più enigmatiche e tragiche correlazioni. C’è tanto Hobbes in questo libro, e tuttavia, “prima del contratto, proprio o figurato, la pandemia è signora dello spazio”. L’ultimo passo della ricerca riguarda infatti l’interpretazione che Michel Foucault ha dato della peste. Si interrogherà al limitare del libro il doppio sogno della peste. Il sogno politico del potere, l’utopia di una città perfettamente governata, le divisioni rigorose, il confinamento, la penetrazione, fin dentro ai più sottili dettagli dell’esistenza di una gerarchia completa garante del funzionamento capillare del potere, l’assegnazione a ciascuno del suo vero nome, del suo vero posto, della sua vera malattia. Quindi il sogno letterario della peste, la sua finzione di festa: le leggi sospese, gli interdetti tolti, la frenesia del tempo che passa, i corpi che si allacciano irrispettosamente, gli individui che si smascherano, che abbandonano la loro identità statuaria e l’aspetto sotto cui li si riconosceva, lasciando apparire tutt’altra verità. L’idea è che i due sogni si richiamino. Che la forma, insieme reale e immaginaria, del disordine abbia come correlativo medico e politico la disciplina. Cioè che dietro i dispositivi disciplinari si legga l’ossessione dei contagi. La scrittura prenderà il largo. Si attraverserà la peste di Atene di Tucidide, rievocata da Lucrezio e lo stato di natura di Hobbes, ma si sosterà anche nei testi di Boccaccio, Manzoni, Camus. Infine il teatro della peste di Artaud riletto alla luce di quel che Foucault scrive sull’assenza di opera. La festa sarà crudele.

Vivere il tempo che uccide. Violenza, guerra, terrore, peste: l'immaginazione, l'ordine del discorso, l'evento fondamentale

Domenico Scalzo
2020

Abstract

Il libro raccoglie dei saggi di diversi autori, ma sviluppa un’idea comune. C’è la tragedia sotto la storia. Gli oggetti su cui esso riflette istituiscono l’essere della loro relazione. La guerra, il terrore, l’attentato e il sequestro di Aldo Moro, la peste, rinviano ad un solo evento fondamentale. Che è lontano da passare il tempo in cui l’uomo fu lupo all’altro uomo. Ma se la violenza è il modo in cui l’umanità si racconta la sua storia, la filosofia non può che apprendere ancora il proprio tempo con il pensiero. Dove la verità muore all’intenzione. Sulla soglia del testo i giochi dell’immaginazione con il simbolo. Nelle sue stanze regali gli occhi della Medusa di Caravaggio si riguardano nello specchio del Leviatano di Hobbes. Due maschere del potere che dissimulano, oserei dire dipingono, il vuoto della rappresentazione. Vedrai la filosofia inseguire la lotta di prestigio per il riconoscimento, ma anche aprire una prospettiva critica, separante e decisiva, sui suoi dati temporali. Pensare che è possibile pensare senza dover escludere. Non di meno, ancora lacrime e stridore di denti nella seconda parte del libro. Nel mezzo dei carnai e degli odi soffocanti, dove la guerra è fatta per niente, sarà Simone Weil ad aprire un varco improvviso di bellezza. Il campo in cui il potere e il sapere si implicano direttamente è assediato dai nomi. Nulla possono la ragion di stato e il potere pastorale. A Foucault non resta che arrendersi dopo tanto sorvegliare e punire. Ma ciò che le parole dicono non è quel che il nome ha chiamato. L’ordine del discorso non distingue più tra amico e nemico. Le parole adorne di maiuscole hanno smarrito il contenuto e il senso. Si mescolano al sangue versato. L’affaire Moro è una storia sbagliata di palazzo e “prigione del popolo”, dove tutti parlano ma nessuno può dire la verità. Colui che appariva il meno implicato di tutti nelle cose orribili organizzate in Italia nel tentativo di conservare il potere, come aveva scritto Pier Paolo Pasolini, l’uomo che credeva di essere la guida di un’altra politica, è destinato per l’appunto a più enigmatiche e tragiche correlazioni. C’è tanto Hobbes in questo libro, e tuttavia, “prima del contratto, proprio o figurato, la pandemia è signora dello spazio”. L’ultimo passo della ricerca riguarda infatti l’interpretazione che Michel Foucault ha dato della peste. Si interrogherà al limitare del libro il doppio sogno della peste. Il sogno politico del potere, l’utopia di una città perfettamente governata, le divisioni rigorose, il confinamento, la penetrazione, fin dentro ai più sottili dettagli dell’esistenza di una gerarchia completa garante del funzionamento capillare del potere, l’assegnazione a ciascuno del suo vero nome, del suo vero posto, della sua vera malattia. Quindi il sogno letterario della peste, la sua finzione di festa: le leggi sospese, gli interdetti tolti, la frenesia del tempo che passa, i corpi che si allacciano irrispettosamente, gli individui che si smascherano, che abbandonano la loro identità statuaria e l’aspetto sotto cui li si riconosceva, lasciando apparire tutt’altra verità. L’idea è che i due sogni si richiamino. Che la forma, insieme reale e immaginaria, del disordine abbia come correlativo medico e politico la disciplina. Cioè che dietro i dispositivi disciplinari si legga l’ossessione dei contagi. La scrittura prenderà il largo. Si attraverserà la peste di Atene di Tucidide, rievocata da Lucrezio e lo stato di natura di Hobbes, ma si sosterà anche nei testi di Boccaccio, Manzoni, Camus. Infine il teatro della peste di Artaud riletto alla luce di quel che Foucault scrive sull’assenza di opera. La festa sarà crudele.
2020
978-88-32241-06-8
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11576/2677823
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