In un contratto finanziario di prestito tradizionalmente caratterizzato da opacità e da asimmetria informativa, quale quello che le banche instaurano con le piccole e medie imprese, in particolare, ma non solo, nel nostro Paese, si inseriscono almeno due temi, tra i tanti, che la Grande Crisi ha comportato: il costo dell’informazione sulle Pmi, da una parte, la cui inadeguatezza non è più supplita dalla presenza di ampie ma illiquide garanzie immobiliari; la naturale riservatezza sui conti aziendali che deriva, per gli owner manager delle Pmi stesse, dalle proprie carenze in materia gestionale, soprattutto sotto il profilo finanziario. Il primo punto è sicuramente oggetto di attenzione e di studio nell’ambito del cosiddetto FinTech, ovvero delle applicazioni che la digitalizzazione consente di realizzare in campo finanziario, e rappresenta un rilevante problema gestionale per le istituzioni creditizie, alle prese con il declino del margine di interesse e con un cost-income ratio ancora troppo elevato. Quando alla seconda questione, oltre alle cennate carenze di cultura e di tecnica gestionale tipiche delle Pmi, si consideri un quadro legislativo che certamente non incentiva l’adozione di best practices in tema di comunicazione finanziaria, sia consuntiva, sia preventiva. Se si riflette sulle varie soluzioni proposte dal legislatore italiano (si pensi in particolare ai provvedimenti di moratoria che si sono succeduti negli anni, sintetizzati da ultimo dal regolatore sotto la definizione di forbearance ) e sempre di buon grado accettate dalle parti, per motivi diversi ma convergenti, si è trattato quasi sempre di soluzioni di natura finanziaria e non industriale, che spostavano in avanti il problema senza risolverlo. Il paradosso di tale situazione, che ha visto protagonista il decisore politico, le associazioni imprenditoriali e le banche, è consistito nel tradimento della lettera e della sostanza del primo e più importante di tali provvedimenti, il famoso “accordo comune” varato agli inizi della Grande Crisi, che prevedeva esplicitamente che la moratoria fosse concessa esclusivamente a condizione che le imprese interessate presentassero un piano economico finanziario in grado di documentare che, grazie alla concessione, ottenuta, la situazione dell’azienda sarebbe migliorata. Ciò che è mancato, pertanto, in tale fase e, viceversa, sarebbe apparso più che mai opportuno, è stato un lavoro di comprensione e di approfondimento da parte delle imprese sui propri conti aziendali, privilegiando anzitutto le soluzioni industriali delle crisi piuttosto che il pannicello caldo del rinvio delle scadenze: in altre parole, la cultura del controllo di gestione e della pianificazione economico finanziaria, che avrebbe dovuto fare un salto di qualità, proprio in corrispondenza del momento storico attraversato, è rimasta ferma al palo, consistendo perlopiù i piani di ristrutturazione e di risanamento presentati alle banche in future ed ipotetiche vendite di immobili ad uso industriale o commerciale, perlopiù invendibili . L’atteggiamento delle banche, d’altronde, perlomeno fino al 2013, è stato benevolo e ben predisposto ad accogliere ogni ipotesi di rinvio delle scadenze, al fine di poter evitare il passaggio dalla classificazione in bonis a quella non performing, senza alcuno stimolo effettivo nei confronti dei prenditori ad agire sui fondamentali, con piani di risanamento incisivi e mirati soprattutto a risolvere le questioni di natura industriale, ovvero di competitività. È appena il caso di sottolineare che non si vuole qui lamentare la mancanza tout court di comunicazione finanziaria tra banche e imprese, quanto piuttosto la qualità della stessa e i suoi contenuti, rivestendo il concetto di “bancabilità” di un progetto imprenditoriale sempre più caratteristiche sostanziali oltre che, naturalmente, di forma tecnica e di aderenza alle best practices. Non è più pensabile, infatti, che la semplice consegna del bilancio, sia pure con sistemi di data entry digitalizzati , possa sostituire la presentazione e la condivisione di piani pluriennali di gestione, tanto più necessari quanto più complesso e articolato diviene l’ambito competitivo nel quale le Pmi italiane lottano, avendo (o dovendo avere, ancora a lungo) al proprio fianco il loro tradizionale partner finanziario, le banche. Queste ultime, d’altronde, proprio a partire da una modifica regolamentare perlopiù ignorata dalle imprese (l’assenza di condivisione delle regole del gioco resta un grande gap del sistema di relazioni di clientela à l’italienne) sono sempre più costrette a fare i conti non appena con modelli digitalizzati di valutazione del merito di credito che possono efficacemente discriminare tra buoni e cattivi prenditori –le cosiddette learning machines-, ma devono comunque continuare a valutare natura, qualità e durata del fabbisogno finanziario d’impresa, rimettendo al centro del processo valutativo il tema della capacità di reddito, grande assente del periodo antecedente lo scoppio della crisi. Vi sono dunque numerose e complesse ragioni per affrontare il tema di questo breve contributo, sempre a partire dalla consapevolezza che la questione non riguarda appena la tecnica bancaria ma attiene, anche e soprattutto, alla sana e prudente gestione delle imprese e al loro sviluppo equilibrato ed armonico.

L’IMPORTANZA DELLA COMUNICAZIONE FINANZIARIA E IL RUOLO DELLA PIANIFICAZIONE ECONOMICO-FINANZIARIA NEL RAPPORTO BANCA-IMPRESA

Alessandro Berti
2020

Abstract

In un contratto finanziario di prestito tradizionalmente caratterizzato da opacità e da asimmetria informativa, quale quello che le banche instaurano con le piccole e medie imprese, in particolare, ma non solo, nel nostro Paese, si inseriscono almeno due temi, tra i tanti, che la Grande Crisi ha comportato: il costo dell’informazione sulle Pmi, da una parte, la cui inadeguatezza non è più supplita dalla presenza di ampie ma illiquide garanzie immobiliari; la naturale riservatezza sui conti aziendali che deriva, per gli owner manager delle Pmi stesse, dalle proprie carenze in materia gestionale, soprattutto sotto il profilo finanziario. Il primo punto è sicuramente oggetto di attenzione e di studio nell’ambito del cosiddetto FinTech, ovvero delle applicazioni che la digitalizzazione consente di realizzare in campo finanziario, e rappresenta un rilevante problema gestionale per le istituzioni creditizie, alle prese con il declino del margine di interesse e con un cost-income ratio ancora troppo elevato. Quando alla seconda questione, oltre alle cennate carenze di cultura e di tecnica gestionale tipiche delle Pmi, si consideri un quadro legislativo che certamente non incentiva l’adozione di best practices in tema di comunicazione finanziaria, sia consuntiva, sia preventiva. Se si riflette sulle varie soluzioni proposte dal legislatore italiano (si pensi in particolare ai provvedimenti di moratoria che si sono succeduti negli anni, sintetizzati da ultimo dal regolatore sotto la definizione di forbearance ) e sempre di buon grado accettate dalle parti, per motivi diversi ma convergenti, si è trattato quasi sempre di soluzioni di natura finanziaria e non industriale, che spostavano in avanti il problema senza risolverlo. Il paradosso di tale situazione, che ha visto protagonista il decisore politico, le associazioni imprenditoriali e le banche, è consistito nel tradimento della lettera e della sostanza del primo e più importante di tali provvedimenti, il famoso “accordo comune” varato agli inizi della Grande Crisi, che prevedeva esplicitamente che la moratoria fosse concessa esclusivamente a condizione che le imprese interessate presentassero un piano economico finanziario in grado di documentare che, grazie alla concessione, ottenuta, la situazione dell’azienda sarebbe migliorata. Ciò che è mancato, pertanto, in tale fase e, viceversa, sarebbe apparso più che mai opportuno, è stato un lavoro di comprensione e di approfondimento da parte delle imprese sui propri conti aziendali, privilegiando anzitutto le soluzioni industriali delle crisi piuttosto che il pannicello caldo del rinvio delle scadenze: in altre parole, la cultura del controllo di gestione e della pianificazione economico finanziaria, che avrebbe dovuto fare un salto di qualità, proprio in corrispondenza del momento storico attraversato, è rimasta ferma al palo, consistendo perlopiù i piani di ristrutturazione e di risanamento presentati alle banche in future ed ipotetiche vendite di immobili ad uso industriale o commerciale, perlopiù invendibili . L’atteggiamento delle banche, d’altronde, perlomeno fino al 2013, è stato benevolo e ben predisposto ad accogliere ogni ipotesi di rinvio delle scadenze, al fine di poter evitare il passaggio dalla classificazione in bonis a quella non performing, senza alcuno stimolo effettivo nei confronti dei prenditori ad agire sui fondamentali, con piani di risanamento incisivi e mirati soprattutto a risolvere le questioni di natura industriale, ovvero di competitività. È appena il caso di sottolineare che non si vuole qui lamentare la mancanza tout court di comunicazione finanziaria tra banche e imprese, quanto piuttosto la qualità della stessa e i suoi contenuti, rivestendo il concetto di “bancabilità” di un progetto imprenditoriale sempre più caratteristiche sostanziali oltre che, naturalmente, di forma tecnica e di aderenza alle best practices. Non è più pensabile, infatti, che la semplice consegna del bilancio, sia pure con sistemi di data entry digitalizzati , possa sostituire la presentazione e la condivisione di piani pluriennali di gestione, tanto più necessari quanto più complesso e articolato diviene l’ambito competitivo nel quale le Pmi italiane lottano, avendo (o dovendo avere, ancora a lungo) al proprio fianco il loro tradizionale partner finanziario, le banche. Queste ultime, d’altronde, proprio a partire da una modifica regolamentare perlopiù ignorata dalle imprese (l’assenza di condivisione delle regole del gioco resta un grande gap del sistema di relazioni di clientela à l’italienne) sono sempre più costrette a fare i conti non appena con modelli digitalizzati di valutazione del merito di credito che possono efficacemente discriminare tra buoni e cattivi prenditori –le cosiddette learning machines-, ma devono comunque continuare a valutare natura, qualità e durata del fabbisogno finanziario d’impresa, rimettendo al centro del processo valutativo il tema della capacità di reddito, grande assente del periodo antecedente lo scoppio della crisi. Vi sono dunque numerose e complesse ragioni per affrontare il tema di questo breve contributo, sempre a partire dalla consapevolezza che la questione non riguarda appena la tecnica bancaria ma attiene, anche e soprattutto, alla sana e prudente gestione delle imprese e al loro sviluppo equilibrato ed armonico.
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