Il titolo del contributo allude al modo in cui il riferimento a Gramsci, a una prospettiva nascente da Gramsci, sia operante nell’approccio con cui Eugenio Garin affronta la storia intellettuale del secolo Ventesimo. La ricostruzione è organizzata attorno ad alcuni testi gariniani composti negli anni Cinquanta e Sessanta: le Cronache di filosofia italiana, del 1955 (anche se pronte già nel 1951, «a parte alcuni particolari»), La filosofia come sapere storico, del 1959, La cultura e la scuola nella società italiana, del 1960, Quindici anni dopo, del 1962, il più sintetico articolo Prospettive culturali e conflitti di idee in Italia dopo la seconda guerra mondiale del 1962 (geneticamente legato a Quindici anni dopo). Accanto ad essi, si dispongono gli interventi gramsciani, anzitutto le relazioni ai convegni del 1958 e del 1967, il Discorso d’apertura tenuto a questo secondo convegno, e – di grande importanza ai fini del presente contributo – la recensione del 1964 a Duemila pagine di Gramsci, l’ampia antologia curata da Ferrata e Gallo. Al di qua e al di là di questo arco temporale (1955-1967) non si può dire che vi sia una presenza forte di Gramsci nella storiografia gariniana sul Novecento. L’introduzione a Intellettuali italiani del XX secolo (1974), con i testi relativi, apre difatti una nuova stagione, a cui appartengono la silloge su Tra due secoli. Socialismo e filosofia in Italia dopo l’Unità, del 1983 (che riunisce – con una sola eccezione – testi composti non prima del 1970), l’intervento su Agonia e morte dell’idealismo italiano, del 1985, e le ultime ricostruzioni autobiografiche. In questa nuova stagione – come testimonia anche la recensione all’edizione critica dei Quaderni del carcere (1975), o la Postilla al saggio di Giovanni Mastroianni Per il Gramsci dei “Quaderni”, del 1979 – Gramsci diventa un oggetto di studio, da inserire in un quadro novecentesco da Garin sottoposto a una profonda revisione storiografica anche rispetto al suo precedente approccio: una revisione tutta condotta all’insegna della dissoluzione dei “miti” e dei “luoghi comuni storiografici”. Nella fase anteriore, invece, Gramsci è per Garin anzitutto il filo conduttore di una ricerca, che ha risvolti immediatamente politici. Garin, che gramsciano non era, viene profondamente “impressionato” dai Quaderni del carcere, come furono pubblicati: anzitutto dal volume su Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura. Qui egli trova un modo per uscire dall’isolamento, per pensare un riscatto che sia di tutti, degli italiani tutti, dell’Italia come nazione; un riscatto dal fascismo e dalla continuità che esso incarnava rispetto alla storia d’Italia: dal prevalere pratico, in ogni tempo, della “storia dei vincitori” (l’espressione è di Garin). In questa fase Garin fa entrare consapevolmente la politica nel proprio orizzonte, calcola le forze in campo, valuta avversari e alleati: e si rivolge anzitutto al mondo comunista, al partito di Togliatti, come unico interlocutore in grado di riprendere e sviluppare praticamente, politicamente un discorso che gli “intellettuali” possono condurre non oltre un certa soglia di efficacia. La tesi che s’intende sostenere (in ciò opposta alle immagini, autorevolmente sostenute, del “moralista” e dello studioso “accademico”), è insomma che Garin compie un’operazione al contempo filosofica e politica: egli non diventa “gramsciano” (alcuni aspetti del suo approccio sono anzi completamente estranei a Gramsci), ma in Gramsci individua l’unica filosofia possibile in Italia dopo Croce e dopo Gentile, e se non si vuole ritornare all’idealismo (sia pure con nomi diversi), perché con Gramsci la filosofia diventa realmente e non a parole “storia”, una filosofia che è indagine, sapere storico appunto, e questo come forma di intervento politico (“filologia vivente”); e tutto ciò in italiano. Nello storicismo gramsciano, Garin vede una filosofia capace di farsi coscienza civile, costume morale, etica-politica, religione laica: l’unico modo per uscire veramente dal fascismo e porre argini al suo ritorno, perché realmente salda in modo “organico” intelligenza e massa, intellettuali e popolo. Il saggio Quindici anni dopo (1962) segna il culmine e insieme la lucida diagnosi del fallimento di questa intrapresa: in esso si mostra come l’occasione per rinnovare realmente l’Italia sia andata perduta, come le forze della conservazione, della continuità vischiosa, della trasformistica vocazione conservatrice abbiano prevalso anzitutto nel campo progressivo (in ciò quel testo è accostabile a La cultura e la scuola nella società italiana, con il suo drammatico invito agli intellettuali a «scegliere», laddove «il non farlo è un isolarsi, è un darsi vinti; per servire, alla fine, la parte che vuole la conservazione e l’immobilità» ). Il disintegrarsi progressivo della cultura umanistico-storicistica – a parere di Garin l’unica prospettiva teorica capace di supportare una trasformazione reale, che unisca gruppi intellettuali e masse («una Riforma e un Rinascimento contemporaneamente») –, con il prevalere, tra gli intellettuali comunisti, proprio in coincidenza con la morte di Togliatti, del “ritorno a Marx”, di un’inedita attenzione per la “cultura di massa”, di una nuova ricerca teorica attorno a “marxismo e scienze umane” ; infine il Sessantotto: tutto ciò sancisce per la prospettiva gariniana di rinnovamento reale dell’Italia, prospettiva che già era stata sconfitta, anche la definitiva impossibilità di una rivincita. Negli anni successivi Garin lascia trasparire, nel suo approccio storiografico al Rinascimento, accenti “nihilistici” ; mentre il Novecento gli appare, contestualmente, sempre più come una lunga crisi: una crisi in cui il 1945 perde qualsiasi valore periodizzante, che viene preso invece dal 1968 (vedi Agonia e morte...), perché qui il blocco intellettuale e materiale che, sostituendo il fascismo, ne aveva in realtà perpetuato la continuità, giunge anch’esso a dissoluzione. La “crisi della ragione” degli anni Settanta appare a Garin una riedizione del passaggio di inizio Novecento (vedi Note sul pensiero del Novecento, del 1978), una riedizione che rende necessaria una rinnovata battaglia: «Il margine breve della ragione deve essere dalla ragione conquistato volta per volta in tutti i suoi campi, con l’aiuto della riflessione critica e senza nessuna sicurezza. Questo l’insegnamento della crisi novecentesca». «Se non intervenga il lavoro della ragione critica, errori e sconfitte, e tutte le esperienze del passato, rimangono vane» . Ma in questa battaglia Gramsci non svolge, non può svolgere più alcuna funzione di indirizzo. Per lui vale invece la regola di una rigorosa contestualizzazione storica, come parte di quella crisi che tutti subiscono, a cui variamente reagiscono e con diversa fortuna tentano di padroneggiare.

La presenza di Gramsci nella storiografia di Garin sul Novecento

FROSINI, FABIO
2011

Abstract

Il titolo del contributo allude al modo in cui il riferimento a Gramsci, a una prospettiva nascente da Gramsci, sia operante nell’approccio con cui Eugenio Garin affronta la storia intellettuale del secolo Ventesimo. La ricostruzione è organizzata attorno ad alcuni testi gariniani composti negli anni Cinquanta e Sessanta: le Cronache di filosofia italiana, del 1955 (anche se pronte già nel 1951, «a parte alcuni particolari»), La filosofia come sapere storico, del 1959, La cultura e la scuola nella società italiana, del 1960, Quindici anni dopo, del 1962, il più sintetico articolo Prospettive culturali e conflitti di idee in Italia dopo la seconda guerra mondiale del 1962 (geneticamente legato a Quindici anni dopo). Accanto ad essi, si dispongono gli interventi gramsciani, anzitutto le relazioni ai convegni del 1958 e del 1967, il Discorso d’apertura tenuto a questo secondo convegno, e – di grande importanza ai fini del presente contributo – la recensione del 1964 a Duemila pagine di Gramsci, l’ampia antologia curata da Ferrata e Gallo. Al di qua e al di là di questo arco temporale (1955-1967) non si può dire che vi sia una presenza forte di Gramsci nella storiografia gariniana sul Novecento. L’introduzione a Intellettuali italiani del XX secolo (1974), con i testi relativi, apre difatti una nuova stagione, a cui appartengono la silloge su Tra due secoli. Socialismo e filosofia in Italia dopo l’Unità, del 1983 (che riunisce – con una sola eccezione – testi composti non prima del 1970), l’intervento su Agonia e morte dell’idealismo italiano, del 1985, e le ultime ricostruzioni autobiografiche. In questa nuova stagione – come testimonia anche la recensione all’edizione critica dei Quaderni del carcere (1975), o la Postilla al saggio di Giovanni Mastroianni Per il Gramsci dei “Quaderni”, del 1979 – Gramsci diventa un oggetto di studio, da inserire in un quadro novecentesco da Garin sottoposto a una profonda revisione storiografica anche rispetto al suo precedente approccio: una revisione tutta condotta all’insegna della dissoluzione dei “miti” e dei “luoghi comuni storiografici”. Nella fase anteriore, invece, Gramsci è per Garin anzitutto il filo conduttore di una ricerca, che ha risvolti immediatamente politici. Garin, che gramsciano non era, viene profondamente “impressionato” dai Quaderni del carcere, come furono pubblicati: anzitutto dal volume su Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura. Qui egli trova un modo per uscire dall’isolamento, per pensare un riscatto che sia di tutti, degli italiani tutti, dell’Italia come nazione; un riscatto dal fascismo e dalla continuità che esso incarnava rispetto alla storia d’Italia: dal prevalere pratico, in ogni tempo, della “storia dei vincitori” (l’espressione è di Garin). In questa fase Garin fa entrare consapevolmente la politica nel proprio orizzonte, calcola le forze in campo, valuta avversari e alleati: e si rivolge anzitutto al mondo comunista, al partito di Togliatti, come unico interlocutore in grado di riprendere e sviluppare praticamente, politicamente un discorso che gli “intellettuali” possono condurre non oltre un certa soglia di efficacia. La tesi che s’intende sostenere (in ciò opposta alle immagini, autorevolmente sostenute, del “moralista” e dello studioso “accademico”), è insomma che Garin compie un’operazione al contempo filosofica e politica: egli non diventa “gramsciano” (alcuni aspetti del suo approccio sono anzi completamente estranei a Gramsci), ma in Gramsci individua l’unica filosofia possibile in Italia dopo Croce e dopo Gentile, e se non si vuole ritornare all’idealismo (sia pure con nomi diversi), perché con Gramsci la filosofia diventa realmente e non a parole “storia”, una filosofia che è indagine, sapere storico appunto, e questo come forma di intervento politico (“filologia vivente”); e tutto ciò in italiano. Nello storicismo gramsciano, Garin vede una filosofia capace di farsi coscienza civile, costume morale, etica-politica, religione laica: l’unico modo per uscire veramente dal fascismo e porre argini al suo ritorno, perché realmente salda in modo “organico” intelligenza e massa, intellettuali e popolo. Il saggio Quindici anni dopo (1962) segna il culmine e insieme la lucida diagnosi del fallimento di questa intrapresa: in esso si mostra come l’occasione per rinnovare realmente l’Italia sia andata perduta, come le forze della conservazione, della continuità vischiosa, della trasformistica vocazione conservatrice abbiano prevalso anzitutto nel campo progressivo (in ciò quel testo è accostabile a La cultura e la scuola nella società italiana, con il suo drammatico invito agli intellettuali a «scegliere», laddove «il non farlo è un isolarsi, è un darsi vinti; per servire, alla fine, la parte che vuole la conservazione e l’immobilità» ). Il disintegrarsi progressivo della cultura umanistico-storicistica – a parere di Garin l’unica prospettiva teorica capace di supportare una trasformazione reale, che unisca gruppi intellettuali e masse («una Riforma e un Rinascimento contemporaneamente») –, con il prevalere, tra gli intellettuali comunisti, proprio in coincidenza con la morte di Togliatti, del “ritorno a Marx”, di un’inedita attenzione per la “cultura di massa”, di una nuova ricerca teorica attorno a “marxismo e scienze umane” ; infine il Sessantotto: tutto ciò sancisce per la prospettiva gariniana di rinnovamento reale dell’Italia, prospettiva che già era stata sconfitta, anche la definitiva impossibilità di una rivincita. Negli anni successivi Garin lascia trasparire, nel suo approccio storiografico al Rinascimento, accenti “nihilistici” ; mentre il Novecento gli appare, contestualmente, sempre più come una lunga crisi: una crisi in cui il 1945 perde qualsiasi valore periodizzante, che viene preso invece dal 1968 (vedi Agonia e morte...), perché qui il blocco intellettuale e materiale che, sostituendo il fascismo, ne aveva in realtà perpetuato la continuità, giunge anch’esso a dissoluzione. La “crisi della ragione” degli anni Settanta appare a Garin una riedizione del passaggio di inizio Novecento (vedi Note sul pensiero del Novecento, del 1978), una riedizione che rende necessaria una rinnovata battaglia: «Il margine breve della ragione deve essere dalla ragione conquistato volta per volta in tutti i suoi campi, con l’aiuto della riflessione critica e senza nessuna sicurezza. Questo l’insegnamento della crisi novecentesca». «Se non intervenga il lavoro della ragione critica, errori e sconfitte, e tutte le esperienze del passato, rimangono vane» . Ma in questa battaglia Gramsci non svolge, non può svolgere più alcuna funzione di indirizzo. Per lui vale invece la regola di una rigorosa contestualizzazione storica, come parte di quella crisi che tutti subiscono, a cui variamente reagiscono e con diversa fortuna tentano di padroneggiare.
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