Il saggio verte sull'idea di povero e di povertà. Il "pauper", che nel Medioevo indica insieme la miseria materiale più sordida e la vocazione mistica più elevata, è oggetto della prima passaggio della ricerca. Non di meno, l'ambivalenza medievale nei confronti della povertà, la quale certamente riflette le divisioni reali della società, la sua struttura materiale, il conflitto tra città e campagna, può essere colta all'apice della sua contraddizione, tra un'attesa messianica che si compie, una prassi di vita che opera nel campo degli oppressi, e il disonore e l'infamia suscitati dall'essere l'insieme dei poveri una classe pericolosa, soltanto se si compie un passo indietro verso la fine del quarto secolo e si interroga la questione di Cristianesimo e povertà nel fuoco della crisi definitiva dell'Impero romano d'occidente. Cioè se mette in discussione l'evergetismo civico della gente munifica nei confronti della propria città, il sistema di doni e contro doni che caratterizza il "munus" in quei tempi difficili di carestia. E' alla predicazione di Sant'Ambrogio, vescovo di Milano, che un'ulteriore passo della ricerca si rivolge ancor prima che alla teologia politica del suo discepolo Agostino. Ambrogio è l'amante dei poveri. Un suo indimenticabile sermone rievoca la vigna di Nabot, e con essa il re Achab, il maledetto, che fa uccidere un povero contadino al solo scopo di impadronirsi del suo podere. Quale concetto di giustizia il cristiano avrebbe potuto abbracciare sulla terra dal comandamento di Dio a fare della terra un bene comune, essendo la terra proprietà di nessuno? Quale ingiunzione più dolce del dovere della solidarietà come primo diritto di natura? Ecco le radicali domande che Ambrogio pone ad una languente società pagana. Il saggio chiede ragione di alcune parole chiavi che ricorrono sia nella pratica politica del vescovo di Milano sia nei suoi discorsi. In particolare di una di esse, operatio, si ricostruisce lo statuto categoriale. Una parola singolare che disloca l'essere nella sfera della prassi, che è il fare più alto perché opera il bene come dono ai poveri, nello spirito di carità, in luogo del sacrificio alla divinità. Il confronto fondamentale del saggio è con il libro dello storico Peter Brown, "Per la cruna di un ago", riletto alla luce delle idee di Michel Foucault sul pastorato cristiano e di Giorgio Agamben sull'ontologia dell'ufficio, la quale si basa su un lavoro di scavo archeologico dell' "operatio" cristiana. La tesi è che sia possibile un'interazione spregiudicata, aperta, tra la nascita delle tecnologie di potere e l'apparire dei poveri sulla mappa della città antica. Sarebbe stato il pastorato cristiano a trasformare, infatti, il passaggio dei poveri al limite dell'impero in una processione lenta verso una città invisibile e celeste; la direzione di condotta ad indirizzare l'avanzare del popolo, incluse le masse schiacciate nel sottosuolo della comunità umana, da una tale marginalità perdente lungo una via universale di salvezza, la cui meta è ora opera della missione della chiesa cristiana e non più un privilegio della "civitas" romana. Intanto Agostino è successo ad Ambrogio nello stabilire un rapporto tra i poveri e il Regno. Il saggio culmina in un'analisi delle pagine finali della "Democrazia in America" di Tocqueville, sulla tirannia della maggioranza, lette in un confronto testuale con le due memorie sul pauperismo da lui scritte. Ecco lo stato dell'arte del potere nel tempo della povertà attraverso le parole del visconte e politico francese: "Un potere che non spezza la volontà, ma la ammorbidisce, la piega e la dirige; che raramente forza ad agire, ma che si oppone continuamente a che si agisca, che non distrugge ma impedisce di creare, che non tiranneggia, ma ostacola, comprime, snerva, spegne, inebetisce; e che finalmente riduce ogni nazione a essere soltanto un gregge di animali timidi e industriosi, dei quali il governo è il pastore".

I poveri e il regno

SCALZO, DOMENICO
2017

Abstract

Il saggio verte sull'idea di povero e di povertà. Il "pauper", che nel Medioevo indica insieme la miseria materiale più sordida e la vocazione mistica più elevata, è oggetto della prima passaggio della ricerca. Non di meno, l'ambivalenza medievale nei confronti della povertà, la quale certamente riflette le divisioni reali della società, la sua struttura materiale, il conflitto tra città e campagna, può essere colta all'apice della sua contraddizione, tra un'attesa messianica che si compie, una prassi di vita che opera nel campo degli oppressi, e il disonore e l'infamia suscitati dall'essere l'insieme dei poveri una classe pericolosa, soltanto se si compie un passo indietro verso la fine del quarto secolo e si interroga la questione di Cristianesimo e povertà nel fuoco della crisi definitiva dell'Impero romano d'occidente. Cioè se mette in discussione l'evergetismo civico della gente munifica nei confronti della propria città, il sistema di doni e contro doni che caratterizza il "munus" in quei tempi difficili di carestia. E' alla predicazione di Sant'Ambrogio, vescovo di Milano, che un'ulteriore passo della ricerca si rivolge ancor prima che alla teologia politica del suo discepolo Agostino. Ambrogio è l'amante dei poveri. Un suo indimenticabile sermone rievoca la vigna di Nabot, e con essa il re Achab, il maledetto, che fa uccidere un povero contadino al solo scopo di impadronirsi del suo podere. Quale concetto di giustizia il cristiano avrebbe potuto abbracciare sulla terra dal comandamento di Dio a fare della terra un bene comune, essendo la terra proprietà di nessuno? Quale ingiunzione più dolce del dovere della solidarietà come primo diritto di natura? Ecco le radicali domande che Ambrogio pone ad una languente società pagana. Il saggio chiede ragione di alcune parole chiavi che ricorrono sia nella pratica politica del vescovo di Milano sia nei suoi discorsi. In particolare di una di esse, operatio, si ricostruisce lo statuto categoriale. Una parola singolare che disloca l'essere nella sfera della prassi, che è il fare più alto perché opera il bene come dono ai poveri, nello spirito di carità, in luogo del sacrificio alla divinità. Il confronto fondamentale del saggio è con il libro dello storico Peter Brown, "Per la cruna di un ago", riletto alla luce delle idee di Michel Foucault sul pastorato cristiano e di Giorgio Agamben sull'ontologia dell'ufficio, la quale si basa su un lavoro di scavo archeologico dell' "operatio" cristiana. La tesi è che sia possibile un'interazione spregiudicata, aperta, tra la nascita delle tecnologie di potere e l'apparire dei poveri sulla mappa della città antica. Sarebbe stato il pastorato cristiano a trasformare, infatti, il passaggio dei poveri al limite dell'impero in una processione lenta verso una città invisibile e celeste; la direzione di condotta ad indirizzare l'avanzare del popolo, incluse le masse schiacciate nel sottosuolo della comunità umana, da una tale marginalità perdente lungo una via universale di salvezza, la cui meta è ora opera della missione della chiesa cristiana e non più un privilegio della "civitas" romana. Intanto Agostino è successo ad Ambrogio nello stabilire un rapporto tra i poveri e il Regno. Il saggio culmina in un'analisi delle pagine finali della "Democrazia in America" di Tocqueville, sulla tirannia della maggioranza, lette in un confronto testuale con le due memorie sul pauperismo da lui scritte. Ecco lo stato dell'arte del potere nel tempo della povertà attraverso le parole del visconte e politico francese: "Un potere che non spezza la volontà, ma la ammorbidisce, la piega e la dirige; che raramente forza ad agire, ma che si oppone continuamente a che si agisca, che non distrugge ma impedisce di creare, che non tiranneggia, ma ostacola, comprime, snerva, spegne, inebetisce; e che finalmente riduce ogni nazione a essere soltanto un gregge di animali timidi e industriosi, dei quali il governo è il pastore".
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11576/2642099
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