La speranza è propriamente una virtù. Dire che è una virtù significa affermare che è una “disposizione d’animo” volta al bene e, quindi, che essa indica un assetto fondamentale della volontà umana. Ciò implica che essa debba essere considerata come una dotazione “naturale”, e dunque universale, dell’essere umano. Allo stesso tempo, però, all’osservatore attento non può sfuggire il fatto che essa sia stata posta in onore solamente all’interno di ben determinati contesti di civilizzazione, rimanendo pressoché inespressiva in altri e diversi ambiti storico-culturali. Questo stato della questione, lungi dal costituire una contraddizione da risolvere, rappresenta invece la possibilità di un arricchimento della sua comprensione nella misura in cui apra le porte ad una visione della complessità che la caratterizza, complessità che è costituita dall’inevitabile intreccio di “natura” e “cultura”. Intreccio che, a ben vedere, rappresenta la regola ineludibile della condizione umana. La complessità è dunque il terreno formale all’interno del quale occorre inoltrarsi, e ciò richiede che si cerchi di analizzare, sia pure in grande sintesi, entrambi i momenti che la nutrono. Per farlo sceglieremo, fra le molteplici possibilità, di presentare la riflessione che due autori del XX secolo hanno dedicato rispettivamente all’uno e all’altro dei poli in tensione. Prima di passare a questo compito, anticipiamo però subito la nostra tesi di fondo, ovvero che il contrasto dirimente che attraversa l’interpretazione teorica e soprattutto la declinazione pratica della speranza non sia, per l’appunto, quello fra natura e cultura, ma quello che risiede nell’opposizione fra evento e dialettica come sue modalità dinamiche e, se così si può dire, realizzative.

Spes contra spem. Appunti sulla speranza

Marco Cangiotti
2020

Abstract

La speranza è propriamente una virtù. Dire che è una virtù significa affermare che è una “disposizione d’animo” volta al bene e, quindi, che essa indica un assetto fondamentale della volontà umana. Ciò implica che essa debba essere considerata come una dotazione “naturale”, e dunque universale, dell’essere umano. Allo stesso tempo, però, all’osservatore attento non può sfuggire il fatto che essa sia stata posta in onore solamente all’interno di ben determinati contesti di civilizzazione, rimanendo pressoché inespressiva in altri e diversi ambiti storico-culturali. Questo stato della questione, lungi dal costituire una contraddizione da risolvere, rappresenta invece la possibilità di un arricchimento della sua comprensione nella misura in cui apra le porte ad una visione della complessità che la caratterizza, complessità che è costituita dall’inevitabile intreccio di “natura” e “cultura”. Intreccio che, a ben vedere, rappresenta la regola ineludibile della condizione umana. La complessità è dunque il terreno formale all’interno del quale occorre inoltrarsi, e ciò richiede che si cerchi di analizzare, sia pure in grande sintesi, entrambi i momenti che la nutrono. Per farlo sceglieremo, fra le molteplici possibilità, di presentare la riflessione che due autori del XX secolo hanno dedicato rispettivamente all’uno e all’altro dei poli in tensione. Prima di passare a questo compito, anticipiamo però subito la nostra tesi di fondo, ovvero che il contrasto dirimente che attraversa l’interpretazione teorica e soprattutto la declinazione pratica della speranza non sia, per l’appunto, quello fra natura e cultura, ma quello che risiede nell’opposizione fra evento e dialettica come sue modalità dinamiche e, se così si può dire, realizzative.
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11576/2679927
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