“Vedrai, tempo un paio di settimane e passa tutto”. Probabilmente molti di noi hanno pensato questo quando il coronavirus ha fatto il suo ingresso nel nostro orizzonte di senso. Abituati all’utilizzo che i mezzi di comunicazione fanno delle notizie, abbiamo sicuramente pensato fosse l’ennesima meteora, destinata ad esaurirsi in breve tempo all’interno dell’immaginario mediale. Ad oggi però, nei momenti di confronto in cui nascono queste riflessioni, sono quasi due mesi che a causa del Covid-19 siamo invitati a “restare a casa” per preservare la stessa collettività alla quale dobbiamo rinunciare per evitare che il contagio si diffonda. La messa in campo delle prime restrizioni ha portato inizialmente a reazioni che sembravano la risposta a una paura generalizzata, forse dovuta al fatto che il nemico che stavamo combattendo costituiva una novità, un nemico invisibile destinato ad espandersi a livello mondiale per mezzo di una trasmissione che ci mette in azione individualmente, come soggetti responsabili e responsabilizzati. Le immagini che si sono imposte nel periodo iniziale (a cominciare da quelle dei supermercati presi d’assalto come se fossimo all’alba dell’apocalisse) riportano una risposta collettiva in linea con l’estetica catastrofista della sceneggiatura dei migliori film di genere, mondi possibili in cui le nostre capacità enciclopediche di interpretazione si sono rifugiate. Ma (s)fortunatamente non siamo ad Hollywood, e l’allarme per il caos iniziale è rientrato. Tuttavia, il virus continua a circolare e il contagio va contenuto per preservare il nostro sistema sanitario nazionale da una eccessiva richiesta di ricoveri, che ne provocherebbe il collasso. Con il passare dei giorni quello che inizialmente poteva sembrare un normale incidente di percorso, una breve parentesi che ci aveva strappato (“sai che non mi dispiace stare qualche giorno a casa, ti dirò”) dal solito tran-tran, ha iniziato a prendere contorni diversi. La conferenza stampa della protezione civile non ci accompagna più quotidianamente, allontanando la speranza di capovolgimenti improvvisi. L’arrivo di una “fase 2” in cui speravamo, se non proprio di tornare alla famosa normalità (non lo spera più nessuno) di andare almeno verso una liberazione, si configura invece nel più pragmatico frame della convivenza con il virus: dovremo abitare questa condizione e non ci è dato sapere per quanto tempo ancora.

Immaginario e politiche nella catastrofe. Una riflessione collettiva

Enrico Mariani;Francesco Pelusi
2020

Abstract

“Vedrai, tempo un paio di settimane e passa tutto”. Probabilmente molti di noi hanno pensato questo quando il coronavirus ha fatto il suo ingresso nel nostro orizzonte di senso. Abituati all’utilizzo che i mezzi di comunicazione fanno delle notizie, abbiamo sicuramente pensato fosse l’ennesima meteora, destinata ad esaurirsi in breve tempo all’interno dell’immaginario mediale. Ad oggi però, nei momenti di confronto in cui nascono queste riflessioni, sono quasi due mesi che a causa del Covid-19 siamo invitati a “restare a casa” per preservare la stessa collettività alla quale dobbiamo rinunciare per evitare che il contagio si diffonda. La messa in campo delle prime restrizioni ha portato inizialmente a reazioni che sembravano la risposta a una paura generalizzata, forse dovuta al fatto che il nemico che stavamo combattendo costituiva una novità, un nemico invisibile destinato ad espandersi a livello mondiale per mezzo di una trasmissione che ci mette in azione individualmente, come soggetti responsabili e responsabilizzati. Le immagini che si sono imposte nel periodo iniziale (a cominciare da quelle dei supermercati presi d’assalto come se fossimo all’alba dell’apocalisse) riportano una risposta collettiva in linea con l’estetica catastrofista della sceneggiatura dei migliori film di genere, mondi possibili in cui le nostre capacità enciclopediche di interpretazione si sono rifugiate. Ma (s)fortunatamente non siamo ad Hollywood, e l’allarme per il caos iniziale è rientrato. Tuttavia, il virus continua a circolare e il contagio va contenuto per preservare il nostro sistema sanitario nazionale da una eccessiva richiesta di ricoveri, che ne provocherebbe il collasso. Con il passare dei giorni quello che inizialmente poteva sembrare un normale incidente di percorso, una breve parentesi che ci aveva strappato (“sai che non mi dispiace stare qualche giorno a casa, ti dirò”) dal solito tran-tran, ha iniziato a prendere contorni diversi. La conferenza stampa della protezione civile non ci accompagna più quotidianamente, allontanando la speranza di capovolgimenti improvvisi. L’arrivo di una “fase 2” in cui speravamo, se non proprio di tornare alla famosa normalità (non lo spera più nessuno) di andare almeno verso una liberazione, si configura invece nel più pragmatico frame della convivenza con il virus: dovremo abitare questa condizione e non ci è dato sapere per quanto tempo ancora.
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11576/2682689
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