Nel dibattito pedagogico italiano assistiamo a una smisurata attenzione al costrutto di outdoor education, che è già al centro della riflessione nei paesi dell’anglosfera da alcuni decenni, e ha dato origine a una miriade di distinzioni teoriche, in merito all’inclusione degli spazi aperti e naturali, esterni rispetto alla struttura scolastica, nell’organizzazione del curricolo e della didattica. L’articolo mette in luce l’esistenza di tre diversi modelli pedagogici nel mondo dell’educazione all’aria aperta: 1) la seclusione tradizionale degli spazi esterni rispetto a quelli interni, con un maggiore o minore grado di continuità didattica e progettuale tra dentro e fuori, che rimangono però entrambi, e in ogni caso, all’interno del perimetro fisico della struttura scolastica e sempre considerati risorsa igienica o didattica; 2) la sindrome ecologica, che propone invece un ampio ricorso a spazi naturali fuori dalla scuola, fino alla possibilità di far coincidere la scuola con lo spazio selvaggio e non antropizzato, con l’obiettivo di recuperare un rapporto con la Natura che consenta di raggiungere un benessere fisico e degli apprendimenti che non sarebbe possibile ottenere altrimenti; 3) lo spazio esterno di marca pedagogica, scevro da ansie, ma non da consapevolezze, sulla civiltà dell’apocalisse ecologica, ma soprattutto attento a considerare sia lo spazio antropizzato che quello non antropizzato, come un necessario riferimento per la costruzione di percorsi educativi che includano esperienze e risorse di natura sistemica rispetto ai saperi da insegnare; risorse presenti esclusivamente fuori dalla scuola e dalle sue relazioni. Quest’ultimo modello è quello che ha maggiori implicazioni per la didattica, richiedendo una riflessione sull’origine, sull’impiego, e sulla trasposizione dei saperi che hanno identità epistemica meticcia tra il dentro e il fuori della scuola.

L’educazione all’aria aperta, segno della crisi e risorsa pedagogica.

andrea lupi
2022

Abstract

Nel dibattito pedagogico italiano assistiamo a una smisurata attenzione al costrutto di outdoor education, che è già al centro della riflessione nei paesi dell’anglosfera da alcuni decenni, e ha dato origine a una miriade di distinzioni teoriche, in merito all’inclusione degli spazi aperti e naturali, esterni rispetto alla struttura scolastica, nell’organizzazione del curricolo e della didattica. L’articolo mette in luce l’esistenza di tre diversi modelli pedagogici nel mondo dell’educazione all’aria aperta: 1) la seclusione tradizionale degli spazi esterni rispetto a quelli interni, con un maggiore o minore grado di continuità didattica e progettuale tra dentro e fuori, che rimangono però entrambi, e in ogni caso, all’interno del perimetro fisico della struttura scolastica e sempre considerati risorsa igienica o didattica; 2) la sindrome ecologica, che propone invece un ampio ricorso a spazi naturali fuori dalla scuola, fino alla possibilità di far coincidere la scuola con lo spazio selvaggio e non antropizzato, con l’obiettivo di recuperare un rapporto con la Natura che consenta di raggiungere un benessere fisico e degli apprendimenti che non sarebbe possibile ottenere altrimenti; 3) lo spazio esterno di marca pedagogica, scevro da ansie, ma non da consapevolezze, sulla civiltà dell’apocalisse ecologica, ma soprattutto attento a considerare sia lo spazio antropizzato che quello non antropizzato, come un necessario riferimento per la costruzione di percorsi educativi che includano esperienze e risorse di natura sistemica rispetto ai saperi da insegnare; risorse presenti esclusivamente fuori dalla scuola e dalle sue relazioni. Quest’ultimo modello è quello che ha maggiori implicazioni per la didattica, richiedendo una riflessione sull’origine, sull’impiego, e sulla trasposizione dei saperi che hanno identità epistemica meticcia tra il dentro e il fuori della scuola.
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11576/2698376
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