Facendoci guidare da una potentissima intuizione platonica, in questo lavoro ci siamo concentrati su un problema comune al criticismo e alla teoria psicoanalitica: quando nasce e che cos’e una Vorstellung? E di cosa, soprattutto, una Vorstellung è Vorstellung? Rispetto a questo problema, infatti, la Chora del Timeo, la sensazione dell’Analitica trascendentale della prima Critica di Kant e il fantasma del freudiano “Un bambino viene picchiato” che Lacan ha isolato, si direbbe, come un concetto fondamentale della psicoanalisi, mostrano di condividere una zona del pensiero pur appartenendo a registri concettuali profondamente differenti: una zona indiscernibile e insensibile in cui, nondimeno, ciascuno appare per quello che è: uno strano luogo materiale che resiste, e contemporaneamente attiva, il trattamento temporale e formale che il Dio buono, all’occorrenza, gli imporra. Invero, quando l’anima e il corpo, la forma e la materia, la quantità e la qualità si trovano legati da un’affezione comune e si muovono insieme, non si parlerebbe a sproposito se si chiamasse “ricezione” questo proto-schematismo. E nemmeno, però, a nostro avviso, si avrebbe torto a farne il cardine di un’estetica superiore diversa da quella kantiana. Con Kant, in fin dei conti, l’Estetica nasce due volte: la prima, nella Critica della ragion pura, come teoria della conoscenza sensibile; la seconda, nella Critica del giudizio, come teoria di ciò che, nel sensibile, procura piacere o dispiacere. Ma sia la Anschauung che la Urteilskraft restano facoltà di un soggetto di cui Kant non mette mai in dubbio lo statuto cosciente. Lacan, proprio per questo, si è scagliato diverse volte contro l’Estetica trascendentale rivendicando, in ciascuna, l’esigenza di una sua riformulazione. Occorre, dice, ripensarne i fondamenti, e ciò non soltanto in ragione dell’insufficienza intrinseca alla concezione kantiana dello spazio. L’Estetica trascendentale va questionata, revisionata e, infine, sostituita perché in essa, l’oggetto-causa del desiderio, non trova posto. Quantunque l’idea per cui vi sarebbe un sentire che non coincide col conoscere, e dunque uno psichico che non si risolve sic et simpliciter nel cosciente, sia un’idea kantiana prima che freudiana, pure l’ipotesi di qualcosa come “un’estetica dell’inconscio” resta inconcepibile all’interno del criticismo. Nell’Antropologia, è vero, Kant riconosce che nel grande campo del nostro spirito soltanto pochi punti sono illuminati. Eppure, l’illimitato campo delle percezioni oscure di leibniziana memoria non è mai stato il centro propulsore delle sue ricerche. Non almeno dichiaratamente. Ecco perché, nel bel mezzo del suo saggio su Chora, Derrida azzarda che forse non abbiamo ancora pensato cosa vuol dire ricevere. Malgrado, cioè, il nome di Chora sia stato pronunciato da Platone, la questione di cui Chora è il nome non è stata né posta né tantomeno, sfiorata. La sua immensa difficoltà, d’altronde, è connessa al problema del rapporto, cosi vecchio, tradizionale e determinante, tra la questione del senso o del sensibile e quella della recettività generale. E, benché le riflessioni di Kant sull’intuitus derivativus e la sensibilità abbiano qualche privilegio relativamente al suo scioglimento, anche Derrida registra un’inadeguatezza complessiva della strategia critica. La recettività delle forme pure, per la verità, ha poco a che fare con la ricezione, impura ma universale, con cui Platone metaforizza il triton génos. Chora indica qualcosa di ancora precedente rispetto allo spazio e al tempo, perché la teoria della ricezione di cui è il prestanome nel Timeo non è una teoria dell’intuizione sensibile. La nutrice di tutte le cose fa segno a un immaginario diverso: un immaginario nuovo che instaura il senso di un sentire, e lo sorregge. Ed è con un simile immaginario che, secondo l’ultimo Lacan, “bisogna rompersi”. Scopo del presente saggio e mostrare come, con questa recettività d’ordine superiore o nuovo immaginario, Kant stesso si è misurato. Non però nell’Estetica. E nemmeno nell’Analitica del Sublime. Sono piuttosto le pagine della Critica della ragion pura dedicate alle Anticipazioni della percezione il luogo da frequentare se si vuole approdare sulle rive di una estetica d’altro tipo: un’estetica apodittica degna della scoperta freudiana.
Fantasma e sensazione. Lacan con Kant
CAMPO A
2020
Abstract
Facendoci guidare da una potentissima intuizione platonica, in questo lavoro ci siamo concentrati su un problema comune al criticismo e alla teoria psicoanalitica: quando nasce e che cos’e una Vorstellung? E di cosa, soprattutto, una Vorstellung è Vorstellung? Rispetto a questo problema, infatti, la Chora del Timeo, la sensazione dell’Analitica trascendentale della prima Critica di Kant e il fantasma del freudiano “Un bambino viene picchiato” che Lacan ha isolato, si direbbe, come un concetto fondamentale della psicoanalisi, mostrano di condividere una zona del pensiero pur appartenendo a registri concettuali profondamente differenti: una zona indiscernibile e insensibile in cui, nondimeno, ciascuno appare per quello che è: uno strano luogo materiale che resiste, e contemporaneamente attiva, il trattamento temporale e formale che il Dio buono, all’occorrenza, gli imporra. Invero, quando l’anima e il corpo, la forma e la materia, la quantità e la qualità si trovano legati da un’affezione comune e si muovono insieme, non si parlerebbe a sproposito se si chiamasse “ricezione” questo proto-schematismo. E nemmeno, però, a nostro avviso, si avrebbe torto a farne il cardine di un’estetica superiore diversa da quella kantiana. Con Kant, in fin dei conti, l’Estetica nasce due volte: la prima, nella Critica della ragion pura, come teoria della conoscenza sensibile; la seconda, nella Critica del giudizio, come teoria di ciò che, nel sensibile, procura piacere o dispiacere. Ma sia la Anschauung che la Urteilskraft restano facoltà di un soggetto di cui Kant non mette mai in dubbio lo statuto cosciente. Lacan, proprio per questo, si è scagliato diverse volte contro l’Estetica trascendentale rivendicando, in ciascuna, l’esigenza di una sua riformulazione. Occorre, dice, ripensarne i fondamenti, e ciò non soltanto in ragione dell’insufficienza intrinseca alla concezione kantiana dello spazio. L’Estetica trascendentale va questionata, revisionata e, infine, sostituita perché in essa, l’oggetto-causa del desiderio, non trova posto. Quantunque l’idea per cui vi sarebbe un sentire che non coincide col conoscere, e dunque uno psichico che non si risolve sic et simpliciter nel cosciente, sia un’idea kantiana prima che freudiana, pure l’ipotesi di qualcosa come “un’estetica dell’inconscio” resta inconcepibile all’interno del criticismo. Nell’Antropologia, è vero, Kant riconosce che nel grande campo del nostro spirito soltanto pochi punti sono illuminati. Eppure, l’illimitato campo delle percezioni oscure di leibniziana memoria non è mai stato il centro propulsore delle sue ricerche. Non almeno dichiaratamente. Ecco perché, nel bel mezzo del suo saggio su Chora, Derrida azzarda che forse non abbiamo ancora pensato cosa vuol dire ricevere. Malgrado, cioè, il nome di Chora sia stato pronunciato da Platone, la questione di cui Chora è il nome non è stata né posta né tantomeno, sfiorata. La sua immensa difficoltà, d’altronde, è connessa al problema del rapporto, cosi vecchio, tradizionale e determinante, tra la questione del senso o del sensibile e quella della recettività generale. E, benché le riflessioni di Kant sull’intuitus derivativus e la sensibilità abbiano qualche privilegio relativamente al suo scioglimento, anche Derrida registra un’inadeguatezza complessiva della strategia critica. La recettività delle forme pure, per la verità, ha poco a che fare con la ricezione, impura ma universale, con cui Platone metaforizza il triton génos. Chora indica qualcosa di ancora precedente rispetto allo spazio e al tempo, perché la teoria della ricezione di cui è il prestanome nel Timeo non è una teoria dell’intuizione sensibile. La nutrice di tutte le cose fa segno a un immaginario diverso: un immaginario nuovo che instaura il senso di un sentire, e lo sorregge. Ed è con un simile immaginario che, secondo l’ultimo Lacan, “bisogna rompersi”. Scopo del presente saggio e mostrare come, con questa recettività d’ordine superiore o nuovo immaginario, Kant stesso si è misurato. Non però nell’Estetica. E nemmeno nell’Analitica del Sublime. Sono piuttosto le pagine della Critica della ragion pura dedicate alle Anticipazioni della percezione il luogo da frequentare se si vuole approdare sulle rive di una estetica d’altro tipo: un’estetica apodittica degna della scoperta freudiana.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.